Poveri di parole, poveri di pensiero
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La perdita di competenze linguistiche è evidente nella nostra società. Basti sapere che oggi il vocabolario di base si aggira sulle 50.000 parole. Manca l’aggancio con la realtà, se non la si traduce in linguaggio. Un paradosso, nell’era della comunicazione.
La povertà lessicale è in crescita, come il numero dei nuovi poveri vittime della crisi? Non da oggi, il dibattito impegna le migliori intelligenze. Si ritiene che sempre più persone viaggino con un bagaglio ridottissimo di parole, giusto l’indispensabile per cavarsela nelle situazioni più comuni. Prevalgono usi “popolari” che si collocano al livello basso della variazione socio-culturale. Sono ignote o disattese le differenze di registro, come osservava già Cesare Segre. Più voci lamentano inoltre un generale abbassamento delle competenze linguistiche anche nelle produzioni scritte di laureati in discipline umanistiche. Strafalcioni, improprietà, ignoranza del lessico comune “e quant’altro” sembrano documentare l’avvenuta unità d’Italia, a scapito della norma. Peraltro, la norma cammina con le gambe degli uomini (e delle donne) e nella pratica quotidiana si adottano le forme più diffuse, con sguardo benevolo verso le deviazioni dallo standard. Prevalgono i democratici e i tolleranti, almeno sull’uso delle parole.
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