Accogliere la vita, accogliere la morte

Con la modernità e la postmodernità abbiamo assunto l’abito dell’onnipotenza. Il nostro tempo è generato da una razionalità che non riconosce il mistero, ma senza la contemplazione dell’eterno non possiamo vivere. Qual è il futuro dell’uomo e della Terra?
Tutto è cominciato con un cambiamento climatico. Tre milioni di anni fa, nella valle dell’Omo in Etiopia, le precipitazioni hanno iniziato a farsi più rade e nell’arco di un altro milione di anni le foreste da umide sono diventate aride, costringendo molte specie viventi a concludere il loro ciclo evolutivo e spingendone altre a modificare il loro comportamento, per riuscire a sopravvivere.
Sapersi adattare è uno dei doni della genetica. Chi ha poche carte in mano soccombe, chi ne ha di più può sperare di avere in mano il jolly capace di ribaltare la sorte a suo favore, riuscendo così a prolungare la partita.
Nel suo procedere da materia inerte a vivente – e da materia vivente a pensante – la vita nell’universo non si è comportata, pur nella sua elaborata complessità, in modo molto diverso da quello di chi si cimenta nel Gioco dell’Oca.
Si avanza, sembra quasi di avere la vittoria in pugno e poi, a un tratto, per un lancio sfortunato di dadi, si ritorna al punto di partenza. Homo erectus, homo habilis, homo sapiens, homo sapiens sapiens: un’unica specie, tra il miliardo di quelle comparse a partire dalla formazione dell’universo, straordinariamente felice nel lancio dei suoi dadi, dato che più del 99% delle forme viventi comparse nel corso dell’evoluzione si sono estinte senza lasciare una discendenza dietro di sé.
Spinti dai cambiamenti climatici, i nostri progenitori sono stati costretti quindi a scendere dagli alberi, a camminare, modificando via via la loro dieta, imparando anche a usare gli strumenti – cosa che, ormai lo sappiamo, anche diversi animali sono in grado di fare. Il loro cervello, nel corso dei millenni, si è così modificato, passando dai meno di 400 grammi – gli stessi di uno scimpanzé o di un gorilla – dell’australopiteco – ancora scimmia ma in alcuni dettagli già un po’ uomo – fino a diventare di 600 grammi nell’Homo habilis. Questo è avvenuto due milioni di anni fa. Poi, con l’avvento dell’Homo erectus, circa un milione e ottocentomila anni fa, il cervello si è espanso ulteriormente da 800 a 1200 grammi. L’ultimo passaggio, quello che porta l’inquieto primate, grazie a un’ulteriore evoluzione della scatola cranica, a trasformarsi nell’Homo sapiens sapiens si compie in un tempo compreso tra cinquecentomila e centocinquantamila anni fa, dando vita all’essere umano così come noi lo conosciamo.
Giunge così a conclusione un processo iniziato settanta milioni di anni fa, con la separazione dagli scimpanzé e dai bonobo, i nostri parenti più prossimi, dando inizio a una specie inizialmente minoritaria ma in grado, grazie all’irrompere del linguaggio – e dunque della complessità del pensiero –, di riuscire in breve tempo a dominare l’intero orbe terracqueo. E, possiamo ormai dirlo con una certa stoica serenità, a mettere anche in cantiere la sua totale distruzione.
Prima del nostro arrivo la Terra aveva già subito distruzioni apocalittiche – solo nel Permiano si era estinta la maggioranza delle forme viventi – ma ha saputo sempre rigenerare altre forme di vita con straordinaria creatività. E così accadrà anche questa volta. Scomparsi noi esseri umani, grazie a qualche olocausto nucleare o ambientale, sorgerà sicuramente al nostro posto una nuova specie capace di rimpiazzarci in breve tempo.
Ad avere la meglio saranno probabilmente le dinastie dei topi, ratti in testa, seguite da quelle delle blatte e dei corvi, animali di straordinaria intelligenza e longevità che hanno il privilegio di potersi nutrire riciclando ciò che non è più in vita – i cadaveri, appunto – e che dunque potrebbero trarre un grande slancio vitale dalla scomparsa di parecchi miliardi di esseri umani. Più cibo, più figli. Più figli, più possibilità di successo. Questa, da sempre, è la grande legge della natura.
Se proviamo a immaginare il tempo sulla terra partendo dalla comparsa delle prime forme di vita – tre miliardi e mezzo di anni fa – a oggi come un normale anno solare, l’Homo sapiens sapiens entrerebbe in scena alle 23.45 del trentun dicembre, appena in tempo per prepararsi ad aprire la bottiglia di spumante per festeggiare la mezzanotte. Siamo stati gli ultimi ad arrivare e, con ogni probabilità – almeno che non si mettano in moto forze positive per un cambiamento di direzione radicale – saremo anche i primi ad andarcene. Stappata la bottiglia insomma, faremo appena in tempo a dire «Cin, cin! Prosit!» e sarà già tempo di congedarci. Se tutta la presenza umana nella storia della vita sulla terra si risolve dunque nei quindici minuti prima di mezzanotte, a che parte di micronesimo di secondo si può far appartenere la nostra singola esistenza? Forse anche il battito d’ali di una farfalla è già un tempo esagerato.
Eppure quando, da bambini, si contempla il proprio futuro ci appare come una dimensione quasi infinita! Ricordo che da piccola, seduta su una sedia, attendevo con scalpitante ansia di riuscire a toccare il pavimento con i piedi. Poi, però, una volta conquistato il suolo, la mia vita mi è sembrata volare via con la velocità di una moviola fuori controllo.
All’età che ho adesso, sessant’anni, la mia bisnonna vestiva solo di nero e di violetto, parlava piano e si muoveva con calma, ispirando a noi nipoti con tutto il suo essere il senso di una temibile autorità. L’autorità della vecchiaia, appunto. Invece adesso io sono libera di vestirmi come le mie nipoti, posso fare le loro stesse cose, senza che l’ombra del ridicolo si stenda su di me. Un coro di voci suadenti intorno continuano a ripetermi che, in realtà, non è cambiato niente, il tempo è un’illusione perché l’unica cosa che conta non sono gli anni che hai ma è come ti senti dentro.
La generazione dei baby boomers è diventata così la prima generazione alla quale viene vietato di invecchiare. Vietato perché è imbarazzante, ridicolo e disdicevole. Come è ormai considerato imbarazzante, ridicolo e disdicevole ricordare che la nostra vita è destinata a un termine e che, davanti a questo termine, siamo tutti impotenti.
La morte è l’unica realtà umana a essere davvero democratica eppure, malgrado questo, è completamente scomparsa dal nostro orizzonte di fortunati abitanti del mondo occidentale. Perché mai dovremmo fermarci a pensare a questo irrisorio inconveniente? Non ci sono guerre dalle nostre parti, non ci sono più malattie epidemiche, la fame è stata debellata e, oltre a ciò, abbiamo un dominio tecnico sul mondo che ci porta a percepirci quasi onnipotenti.
Dell’eclissarsi di questa realtà – la morte che ci aspetta – nessuno sembra preoccuparsene particolarmente. Perché mai bisognerebbe avere nostalgia di qualcosa in cui non si riesce a vedere alcun lato positivo?
In questo sollievo, però, c’è qualcosa di molto infantile: lo spirito ingenuo di chi è capace di vedere solo un lato minuscolo della realtà – quella che lo riguarda. Se estendiamo invece lo sguardo ai quindici minuti prima di mezzanotte e all’intero anno in cui la Terra ha vissuto – felicemente – senza di noi, le cose cambiano. Miliardi di anni, miliardi di forme di vita, un universo che non esisteva e che a un tratto – per un insieme di concause su cui, nonostante tutte le scoperte della scienza, permane un fitto velo di mistero – esiste. E poi, giusto per il brindisi finale, la nostra comparsa, evolutivamente unica e, secondo tutti i calcoli della statistica, irripetibile.
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Susanna Tamaro
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