Di cosa sono sintomo i nazionalismi?

di Julia Kristeva
Il riproporsi del nazionalismo sotto varie facce oggi in Europa rischia di essere una bomba a scoppio ritardato. Spesso diventa una sorta di antidepressivo e va analizzato con estrema serietà. La questione dell’identità e il rifiuto dello straniero.
Dire che il nazionalismo è il sintomo significa che in esso risuona un’ideologia che fa dell’identità nazionale un irrigidimento identitario, una bomba a scoppio ritardato, minaccia mortifera e guerrafondaia. Come tutti i sintomi, i nazionalismi (al plurale) esprimono sofferenze innominate che sottendono la vertiginosa questione dell’identità come pure le evoluzioni storiche, giuridiche e politiche dello Stato-nazione. Senza ignorare questa storia, tenterò un approccio ai nazionalismi come io li vivo nel contesto attuale, un contesto che non ha precedenti, fatto di depressioni nazionali, di flussi migratori, di spinte religiose integriste, di escalation nazionaliste difensive e aggressive – il tutto, amplificato dall’iperconnessione. E mi assumo il rischio di semplificare, consapevole di aprire un vaso di Pandora che l’ideologia nazionalista non arriva più (o non arriva affatto?) a dissimulare.
Vi propongo quindi di pensare che i nazionalismi siano i sintomi del fallimento dell’umanesimo davanti a quelle due realtà della globalizzazione digitalizzata che sono lo straniero e la trascendenza, di cui la globalizzazione profitta, e che nega, ma da cui è minacciata: gli stranieri, che il nazionalismo teme davvero, o che utilizza come capri espiatori delle proprie carenze interne; la trascendenza, che la gestione tecnica dello Stato-nazione fatica a tradurre, e che quindi esso non riesce ad accompagnare efficacemente per formare i cittadini-internauti nel loro bisogno di ideali e nel loro bisogno di credere, che rimangono dei costitutivi antropologici universali.
Il riproporsi del nazionalismo sotto varie facce oggi in Europa rischia di essere una bomba a scoppio ritardato. Spesso diventa una sorta di antidepressivo e va analizzato con estrema serietà. La questione dell’identità e il rifiuto dello straniero.
Dire che il nazionalismo è il sintomo significa che in esso risuona un’ideologia che fa dell’identità nazionale un irrigidimento identitario, una bomba a scoppio ritardato, minaccia mortifera e guerrafondaia. Come tutti i sintomi, i nazionalismi (al plurale) esprimono sofferenze innominate che sottendono la vertiginosa questione dell’identità come pure le evoluzioni storiche, giuridiche e politiche dello Stato-nazione. Senza ignorare questa storia, tenterò un approccio ai nazionalismi come io li vivo nel contesto attuale, un contesto che non ha precedenti, fatto di depressioni nazionali, di flussi migratori, di spinte religiose integriste, di escalation nazionaliste difensive e aggressive – il tutto, amplificato dall’iperconnessione. E mi assumo il rischio di semplificare, consapevole di aprire un vaso di Pandora che l’ideologia nazionalista non arriva più (o non arriva affatto?) a dissimulare.
Vi propongo quindi di pensare che i nazionalismi siano i sintomi del fallimento dell’umanesimo davanti a quelle due realtà della globalizzazione digitalizzata che sono lo straniero e la trascendenza, di cui la globalizzazione profitta, e che nega, ma da cui è minacciata: gli stranieri, che il nazionalismo teme davvero, o che utilizza come capri espiatori delle proprie carenze interne; la trascendenza, che la gestione tecnica dello Stato-nazione fatica a tradurre, e che quindi esso non riesce ad accompagnare efficacemente per formare i cittadini-internauti nel loro bisogno di ideali e nel loro bisogno di credere, che rimangono dei costitutivi antropologici universali.
Lo constatiamo tutti. Lo straniero ossessiona la globalizzazione: Italia, Ungheria, Venezuela… Niente a che vedere con uno spettro, come fu il caso dello spettro del comunismo che ossessionava la Santa Alleanza europea (secondo il Manifesto del Partito Comunista) più di un secolo e mezzo fa. L’insostenibile presenza degli stranieri è ben più dirompente e reale, dall’esterno e dall’interno delle nostre frontiere, per quanto anch’essa pesantemente sovraccaricata di fantasmi immaginari. Come alzano gli occhi dai loro selfie iperconnessi, i twittatori nativi si risvegliano stranieri nel loro stesso Paese. Gli uni, atterriti dall’ondata migratoria, la “grande sostituzione”; gli altri, sorpresi di ritrovarsi essi stessi stranieri, in quanto temporanei autoimprenditori dell’uberizzazione transfrontaliera; disoccupati, o agricoltori di territori desertificati; bambini che non fanno colazione prima di scuola, e altre “diversità” riscontrabili fra quanti vengono lasciati indietro dal “sistema”. Al di fuori della rete, i likers e i followers perdono l’illusione virtuale di “vivere insieme”, non vi credono più, sono stranieri in cerca di un Paese che non esiste. L’iperconnessione confina con lo spaesamento; la post-verità e le fake news provocano e acuiscono il sentimento – il risentimento – di estraneità.
Nel 1988, più di trent’anni or sono, scrissi Stranieri a noi stessi, che fu preso per un libro. Era un grido. E vorrei oggi farne udire qualche accento, nella convinzione che le nostre riflessioni potranno trovare il loro senso solo a condizione che restiamo in ascolto di questa condizione umana che mette in discussione lo Stato-nazione e stenta a credere anche nella ragione politica: «Straniero: rabbia strozzata in fondo alla gola, angelo nero che turba la trasparenza, traccia opaca, insondabile. Figura dell’odio e dell’altro, lo straniero non è né la vittima romantica della nostra pigrizia familiare né l’intruso responsabile di tutti i mali della città. Né la rivelazione attesa né l’avversario immediato da eliminare per pacificare il gruppo. Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo che rende appunto il “noi” problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità. Lo “straniero”, che fu il “nemico” nelle società primitive, può scomparire nelle società moderne?».
Questa estraneità essenziale, che le diverse varianti della sedentarizzazione – alternando “radicamenti” ed esili – avevano più o meno cicatrizzato, viene risvegliata brutalmente dalla globalizzazione in mano al virtuale. Lo Stato-nazione è ancora il contenitore ottimale di questa nuova umanità cui aspira un “Paese che non esiste”? La mia risposta è “sì”; la nazione è un antidepressivo, a condizione che si colleghi – ma a quale prezzo? – agli insiemi superiori, regionali e culturali (l’Europa, per esempio). Un antidepressivo che non può più fare a meno del “genere umano”. Ma che deve, per questo, riprendere, interrogare e rifondare non solo le culture nazionali ma anche la memoria delle religioni costituite, le quali sostengono di possedere un “legame unificante”, un legame che trascende le comunità etniche e politiche storicamente costituite. E rifondare l’umanesimo universale stesso, che se ne è separato, che le interroga e che s’interroga.
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Julia Kristeva
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