L'ombra di Roma: il confine come esclusione

Se all’interno dell’impero romano i confini erano aboliti e non c’erano barriere, verso l’esterno delimitavano il deserto: al di fuori c’erano i barbari, gli stranieri. Siamo tornati a quei tempi? Un filosofo, una storica e un geografo a confronto.
MA LA LIBERTÀ VINCERÀ GLI IMPERI
di Sergio Givone
Si dice “confine” e non semplicemente “fine” (nel senso di finis, terminus, limite invalicabile) evidentemente per qualche buona ragione: una delle quali, non la sola, è che si tratta di una linea divisoria in comune con altri o comunque condivisa. Non dunque un elemento di separazione, al di là del quale il mondo, abitato o meno che sia, cessa di essere mondo, e si fa luogo inospitale e ostile, o addirittura nonluogo, ma un principio di riconoscimento reciproco, sia pur minimo, quale ad esempio è espresso dalla formula: «Io sono chi tu non sei, tu sei chi io non sono».
di Sergio Givone
Si dice “confine” e non semplicemente “fine” (nel senso di finis, terminus, limite invalicabile) evidentemente per qualche buona ragione: una delle quali, non la sola, è che si tratta di una linea divisoria in comune con altri o comunque condivisa. Non dunque un elemento di separazione, al di là del quale il mondo, abitato o meno che sia, cessa di essere mondo, e si fa luogo inospitale e ostile, o addirittura nonluogo, ma un principio di riconoscimento reciproco, sia pur minimo, quale ad esempio è espresso dalla formula: «Io sono chi tu non sei, tu sei chi io non sono».
Tuttavia l’idea di confine reca con sé una contraddizione. A stabilire il confine, ad assicurarlo può essere soltanto una istituzione sopra le parti in grado di impedire a qualsiasi forza aggressiva di invadere territori altrui. Questa istituzione è stata storicamente l’“impero”. Ed è proprio la vocazione imperialistica di questa istituzione sopra le parti a snaturare l’idea di confine da essa presupposta fi no a contraddirla. Infatti c’è confine e confine. C’è il confine che separa ma prima ancora unisce i popoli che formano l’impero: li conferma nella loro separatezza, rispettandone consuetudini tradizioni credenze eccetera, ma li include in un più ampio orizzonte e quindi li unifica. E c’è il confine che separa per escludere e anzi per negare qualsiasi diritto, compreso il diritto alla vita, a chiunque si ponga al di fuori di esso. Nel momento in cui l’impero si costituisce come nazione delle nazioni, e dunque non già come potere sovranazionale ma come potere ipernazionale, il confine è uno solo: fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, fra i titolari dei diritti e fra coloro che non lo sono, fra i popoli dell’impero e i barbari. Inevitabilmente il concetto di confine si fa evanescente, contraddittorio, nato com’è in nome della pace e funzionale com’è diventato unicamente alla guerra contro quello che appare un irriducibile nemico.
Così è stato nel caso dell’impero romano. Con l’affermarsi del potere imperiale di Roma e con la progressiva estensione della cittadinanza romana a tutti i popoli dell’impero, il concetto di confine vien meno e svapora. In quanto confine fra popoli dell’impero cessa di essere un limite e una barriera (limes) per configurarsi come una porta aperta piuttosto che chiusa, insomma, come una soglia (limen). E in quanto confine ultimo, confine delimitante l’impero, torna a essere stazione terminale, punto conclusivo oltre il quale non c’è praticamente nulla (finis). Se all’interno dell’impero il confine dice l’omogeneità e la compattezza dei popoli che lo compongono, ma soprattutto dice la loro piena appartenenza al mondo civile (quanto meno l’appartenenza che è propria del civis romanus), all’esterno dell’impero il confine indica quel nulla incolto e disumano che è il deserto. Perfino etimologicamente (finis da figere, conficcare nel terreno), il confine evoca il gesto imperiale, imperialistico e soprattutto imperioso del centurione che, giunto al limite del mondo civile, decreta: hic sunt leones. E qui vale la pena di ricordare che il trattamento riservato ai leoni (nel deserto) era più o meno lo stesso riservato a coloro che (dentro i confini dell’impero) non si lasciavano assimilare ma erano peggio che barbari perché erano estranei, “stranieri”.
L’ombra lunga, lunghissima di Roma si estende in modo quanto mai inquietante e pauroso sul nostro tempo, caratterizzato com’è da forme di imperialismo non sempre evidenti né dichiarate, ma inconfutabili, che derivano da una doppia dissoluzione: la dissoluzione dell’impero romano, prima, e la dissoluzione del sacro romano impero, poi. Ma qui più che di dissoluzione si dovrebbe parlare di trasformazione: da impero a impero, l’uno non meno dell’altro a vocazione imperialistica, come dimostra il fatto che l’idea di confine è sempre quella. Nasce come idea inclusiva e finisce come idea esclusiva. Dove il confine è frontiera, la frontiera è esclusione, l’esclusione è di fatto annichilimento dell’alterità dell’altro.
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Così è stato nel caso dell’impero romano. Con l’affermarsi del potere imperiale di Roma e con la progressiva estensione della cittadinanza romana a tutti i popoli dell’impero, il concetto di confine vien meno e svapora. In quanto confine fra popoli dell’impero cessa di essere un limite e una barriera (limes) per configurarsi come una porta aperta piuttosto che chiusa, insomma, come una soglia (limen). E in quanto confine ultimo, confine delimitante l’impero, torna a essere stazione terminale, punto conclusivo oltre il quale non c’è praticamente nulla (finis). Se all’interno dell’impero il confine dice l’omogeneità e la compattezza dei popoli che lo compongono, ma soprattutto dice la loro piena appartenenza al mondo civile (quanto meno l’appartenenza che è propria del civis romanus), all’esterno dell’impero il confine indica quel nulla incolto e disumano che è il deserto. Perfino etimologicamente (finis da figere, conficcare nel terreno), il confine evoca il gesto imperiale, imperialistico e soprattutto imperioso del centurione che, giunto al limite del mondo civile, decreta: hic sunt leones. E qui vale la pena di ricordare che il trattamento riservato ai leoni (nel deserto) era più o meno lo stesso riservato a coloro che (dentro i confini dell’impero) non si lasciavano assimilare ma erano peggio che barbari perché erano estranei, “stranieri”.
L’ombra lunga, lunghissima di Roma si estende in modo quanto mai inquietante e pauroso sul nostro tempo, caratterizzato com’è da forme di imperialismo non sempre evidenti né dichiarate, ma inconfutabili, che derivano da una doppia dissoluzione: la dissoluzione dell’impero romano, prima, e la dissoluzione del sacro romano impero, poi. Ma qui più che di dissoluzione si dovrebbe parlare di trasformazione: da impero a impero, l’uno non meno dell’altro a vocazione imperialistica, come dimostra il fatto che l’idea di confine è sempre quella. Nasce come idea inclusiva e finisce come idea esclusiva. Dove il confine è frontiera, la frontiera è esclusione, l’esclusione è di fatto annichilimento dell’alterità dell’altro.
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Sergio Givone, Cinzia Bearzot, Franco Farinelli
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