Poesia, la grande assente. Un j'accuse non in versi

Anni fa, quando si trattò di destinare uno spazio pubblico di Milano a sede di una manifestazione di poesia, non si nascose da parte del mondo letterario un certo scetticismo circa quello che sarebbe stato il successo dell'iniziativa. Ma a dar torto ai dubbiosi, convenne sul luogo una folla di giovani e meno giovani spettatori curiosi di dibattiti, tavole rotonde, eventuali happening che avessero per oggetto la poesia, e soprattutto ansiosi di assistere a una lettura di versi a opera dei loro stessi autori. Nessuno di questi, va subito detto, possedeva la pratica e le doti di un Karl Kraus le cui pubbliche letture viennesi fanno parte del nostro mito della Mitteleuropa: ma bastarono l'autenticità del porgere, la stessa timidezza, perché scrosciassero gli applausi. Eventi del genere sono andati da allora moltiplicandosi e la tendenza è al rialzo. Dalle vecchie piazze e piazzette del centro storico si è passati a più sofisticati luoghi di ascolto: cortili di palazzi patrizi, abbandonate aree mercantili o cimiteriali, chiese non più destinate al culto, argini lungo i Navigli. Ebbe il suo pubblico anche una riunione tenutasi nel più rigido gennaio, quindi inconsueta, che s'intitolò Poeti d'inverno.
Se non è il caso di parlare di fenomeno di massa - nessun organizzatore di serate di poesia penserebbe di competere con un impresario di cantanti rock - s'ha pur da tenere conto, sotto un profilo di costume prima ancora che letterario, di un certo numero di fatti che direttamente o indirettamente ruotano attorno a un crescente interesse per la creazione poetica.
I raduni di cui s'è detto costituiscono sicuramente l'aspetto più vistoso, macroscopico del fenomeno. Ma poiché siamo in un campo dove tradizionalmente i dati quantitativi non sono così determinanti come in altri settori meno selettivi, eccoci a dover menzionare spazi più limitati e protetti, dove la poesia consuma i suoi riti feriali. Ad esempio i caffè letterari della città: sembrava che il '68 li avesse quasi del tutto cancellati, e che i pochi superstiti portassero ben visibili segni della loro obsolescenza. Così nel quartiere di Brera, dove negli anni del dopoguerra scrittori e artisti erano soliti intrattenere un quotidiano scambio d'idee e propositi: in quei loro luoghi d'incontro, bar, caffè, trattorie, gallerie d'esposizione, che avevanovisto nascere gli ennesimi, probabilmente gli ultimi "ismi" del nostro Novecento, l'ondata iconoclasta della rivoluzione culturale... milanese ha lasciato la rozza impronta del suo passaggio, ha avuto un effetto traumatizzante. Ma ai limiti della cerchia dei Navigli, o addirittura fuori della seconda cerchia della città, quella dei bastioni spagnoli, sono andati sviluppandosi altri piccoli centri di aggregazione: caffè appunto dalle insegne e un po' improbabili (il più noto è il Portnoy), ma anche enoteche e birrerie, biblioteche rionali e librerie, sale e ricreatori di cooperative, associazioni, movimenti e partiti, dove la giovane poesia s'incontra e confronta.
Il momento principe è quello della presentazione di una raccolta di versi: il rito d'investitura prevede la partecipazione attiva di un letterato di chiara fama, meglio se unpoeta delle scorse generazioni, che darà così il suo autorevole avallo alla prova del neofita.
Si direbbe venuto meno, invece, quel dialogo tra poesia e altre arti di cui s'è detto a proposito di certa comunanza che si ebbe tra poeti e artisti nei primi anni del dopoguerra: gli uni e gli altri hanno oggi poco da dirsi, mentre senza significanza sono gli eterni esperimenti che vorrebbero abbinare parola e suono, vuoi con il concorso di strumenti nobili (liuto, chitarra classica) o meno nobili (marchingegni elettronici vari), vuoi con quello di voci umane, preferibilmente femminili; o abbinare la parola e l'immagine, la parola e il gesto (la cosiddetta "videopoesia"). Fallimentari poi le incursioni dei poeti più disinvolti in campo teatrale o teatral-lirico. Se è vero che una delle caratteristiche delle avanguardie è il rapporto ravvicinato tra le varie attività creative, non solo in termini di amicizia personale tra scrittori, pittori, musicisti ma anche di realizzazioni comuni, la giovane poesia sembra avere imparato dal passato più d'una lezione ed è portata a vedere nella sperimentazione la classica scelta di chi non ha mai avuto niente da dire.
Tv e rotocalchi non si curano di lei
La poesia è dunque un fatto privato, o quanto meno dovrebbe esserlo. Poi verranno le pubbliche letture, le sfilate in passerella, le riviste, le pagine letterarie dei quotidiani più diffusi, la sospirata uscita in volume o volumetto, i riconoscimenti vari, l'inclusione in un'antologia prestigiosa, la traduzione boema... Abbiamo volutamente escluso, da questa serie di occasioni collegate, almeno in seconda istanza, al fare poetico, i salotti letterari. La ragione è la più semplice: veri salotti letterari, se mai ne sono esistiti, non ne esistono più. La società patrizia, nel passato, quella altoborghese in seguito, non hanno per la verità mai avuto una funzione determinante nel divenire delle vicende letterarie. Miopi o illuminati che fossero, i nobili prima, gli industriali poi, hanno sempre preferito andare sul sicuro aprendo i loro salotti a nomi di scontato successo, buoni ad illustrare le pareti di casa, fatta salva la presenza di qualche personaggio "alternativo"; eccezione che confermava la regola. Si favoleggia tuttavia di ambienti molto esclusivi, all'ombra di qualche grande o meno grande figura dell'editoria, naturalmente femminile: ma è del tutto improbabile che i poeti vi abbiano accesso, privi come sono, almeno in quanto tali e soltanto tali, di una quotazione sociale che dia lustro alla casa delle nostre Verdurin.
La poesia sembrerebbe oggi conoscere più originali casse di risonanza: pochi mesi fa grandi manifesti a colori, che riportavano il testo di una poesia d'autore, apparvero sui muri e sulle staccionate di Milano, là dove di solito si reclamizzano detersivi e biancheria intima, o si dà notiziadi manifestazioni dei gruppi ecologisti. Ma si trattò di un'iniziativa una tantum.
Non abbastanza popolari per suscitare l'interesse dei grandi media, quali la televisione, il cinema, i cosiddetti rotocalchi, non abbastanza in per far parte dei club e dei salotti più chiusi, i poeti hanno dalla loro i programmi culturali della radio, piuttosto seguiti, nonché alcuni settimanali illustri con rubriche dedicate alla vita culturale, senza dimenticare «Poesia», una rivista che al suo primo apparire si è permessa una tiratura di 25.000 copie.
Sia il giovin poeta oggetto unico di un articolo o di un'intervista, siano il suo nome e la sua opera considerati in un ambito più generico, il segno più certo della pubblica promozione sarà la fotografia dell'autore. Come lo si vedrà raffigurato? Con quali vestiti? Pose? Le inconsolabili vedove della contestazione si ostinano ad ignorare la cravatta, ma dai blue-jeans diventati troppo stretti sono passati al velluto; prevale invece tra i più giovani, disinvolti e stracittadini dentro i loro completi di tessuto scuro e leggero, un'aria manageriale; barbe sì, barbe no.
Aperte alla poesia anche le pagine letterarie dei quotidiani, non fosse che per il fatto che la loro redazione è per lo più affidata agli stessi poeti, specie se reduci dal neo-avanguardismo degli anni Sessanta e dalle fila del '68. Si è così creata una situazione che potrebbe dirsi di stagnazione: i recensori delle raccolte di poesia altrui sono al tempo stesso autori di raccolte di poesia in proprio; la struttura che ne segue rischia di scadere e sempre più scade a un sistema di recensioni incrociate, con un suo codice di regole del gioco che comporta una passiva remissività di fronte a pressioni editoriali o addirittura politiche, inclusioni, preclusioni, esclusioni, sino ad arrivare a un vero e proprio "silenzio stampa" e a significative rimozioni nei confronti dei più scomodi outsider. In realtà è venuta meno la figura del critico, tutto d'un pezzo, che non scrive versi, ma solo giudica: la sua razza, in via di estinzione, ha ancora qualche superstite rappresentante tra i collaboratori della pagina culturale del «Corriere del Ticino», che però si stampa nella vicina Svizzera, o in quelle dell'«Unità» e dell'«Avvenire», due quotidiani di opinione che non raggiungono il grande pubblico, e del giornale «il Sole 24 Ore», peraltro di carattere economico.
Chiusi tra grandi e piccoli editori
Il degrado culturale dà segno di sé anche nel mondo delle riviste letterarie, almeno di alcune che vanno per la maggiore quanto a numero di lettori. Piccoli fogli di periodicità irregolare, che spesso non durano oltre i primi due o tre numeri, risultano meno condizionati dai media, nel senso che ne sono scarsamente influenzati né cercano d'imitarne le tecniche: possono contare su una ristretta cerchia di lettori-autori, costituiscono un buon terreno di raccolta per chi si mette in caccia d'inediti e di novità.
Si sarebbe tentati, a questo punto, di applicare lo stesso criterio del "piccolo è bello" a quanto avviene nel campo dell'editoria, indubbiamente il più importante e vitale tra i molti in cui la poesia gioca la sua pubblica sorte: senza libro, o raccoltina plaquette volumetto o altro che sia, il poeta resta una nobile astrazione, la sua poesia un sia pur prezioso fascio &carte che esiste però solo ex parte auctoris. Le strade della pubblicazione sono quasi infinite ma è alquanto improbabile che un poeta che intenda uscire con un suo primo libro segua quello che sembrerebbe essere l'iter più ovvio: mandare il proprio dattiloscritto all'editore con una lettera di accompagnamento che chieda di essere preso in esame per un'eventuale pubblicazione. Se questo è accaduto, qualche volta, si è subito parlato di "caso". Ma val poi la pena di entrare in letteratura con addosso l'etichetta di caso x o caso z, destinata a non durare più di due o tre stagioni?
Di norma i grandi editori operano scelte precise su autori già affermati, legati a loro o meno da contratto, o chiaramente emergenti dalla selva dell'editoria minore delle piccole riviste letterarie, dei tanti premi per inediti; nessun editore o talent scout delle case più importanti si avventura nella notte dei mille, diecimila poeti in lista d'attesa, senza la scorta delle indicazioni che gli forniscono piccoli editori e riviste, più o meno felicemente responsabili di una prima opera di sfoltimento e selezione.
Ma chi sono, quanti sono, che valgono tali piccoli editori di poesia? Sono davvero off? Oppure off off? O niente di tutto questo? E come si riesce a farsi pubblicare? Iniziando dall'ultimo quesito, che è poi il più importante per un giovane poeta, converrà dire che col pretesto delle notevoli spese cui va incontro e delle prospettive commercialmente sfavorevoli dell'operazione, l'editore chiede all'autore, che avrà avuto l'approvazione di un "comitato di lettura" (in verità una sola persona, il più delle volte), un congruo contributo in denaro o, meno venalmente, l'acquisto di un certo numero di copie del libro che sarà stampato. TI contratto è sostanzialmente equo. Ma esiste un vero e proprio sottobosco, specie nelle province, di editori poco scrupolosi che mettendo indiscriminatamente a profitto la vanità dei poeti locali hanno accumulato negli ultimi anni piccole fortune: per giunta il loro nome, assolutamente squalificato, finisce per nuocere agli ingenui autori che avrebbero avuto miglior successo se, valendo qualcosa, avessero pubblicato in proprio, trattando direttamente con una tipografia. Su un opposto versante si distinguono alcune piccole case, di gloriosa tradizione, che possono vedere riunita in una sola persona la figura dell'editore, del lettore, dell'amministratore: è questi un amateur de poèmes, dai gusti personalissimi, indipendente da mode etendenze, quasi colui che rinunciando ad esprimersi in proprio si esprime attraverso i suoi autori e i suoi volumetti, d'inappuntabile eleganza; era il caso delle milanesi edizioni Scheiwiller.
Per tutti, piccoli e grandi, esiste il problema della distribuzione: qui è il nodo, qui la strozzatura. Nelle poche librerie che li commerciano, i libri di poesia, di un modesto numero di pagine, di ridotto formato, non tardano a finire in un angolo fuor di vista; né il libraio, dato l'esiguo ricavo che potrebbe trarne, si dà da fare per promuoverne la vendita. Dopo qualche tempo le giacenze sono rese all'editore e da questo, in mancanza di meglio, mandate direttamente al macero. Come una stella cadente il libro avrà vissuto per un attimo la sua avventura nell'universo della carta stampata. Meritava sorte migliore?
Già al tempo di Dante, per esempio, non si faceva gran caso della poesia dei lombardi: si riteneva che il loro senso musicale fosse reso ottuso dalla garrulitas, da intendersi come "gutturalità", della favella e
che a questo si dovesse la mancanza di veri poeti nella regione che i Longobardi avevano invaso nell'alto Medioevo: «Garrulitas proprie terrigenis credimus romansisse. Et haec est causa quare [...] nullum invenimus poetasse; nam proprie garrulitati assuefacci nullo modo possunt ad vulgare aulicum sine quadam acerbitate venire». In contraddizione con questo passo, dal De vulgari eloquentia (I, XV, 3-4) Dante riconosceva tuttavia, in un capitolo successivo (I, XIX, 1), che anche i Lombardi, così come Siciliani e Toscani, avevano espresso «doctores illustres qui lingua vulgari poetati sunt».
A quasi sette secoli di distanza, toccava a Pier Paolo Pasolini riprendere l'argomento dello scarso senso musicale dei lombardi: nessuno dei poeti di un'antologia del dopoguerra, intitolata per l'appunto Linea Lombarda, dimostrava, secondo Pasolini, di possedere «la minima disposizione al canto, quel canto di tipo italiano, sia melodico (come in un Alfonso Gatto, sulla linea napoletana) sia in senso più letteralmente musicale (magari in chiave simbolistica, ma sotto sotto petrarchesca, come nei fiorentini, Luzi in specie)». A controprova di quanto sopra,Pasolini adduceva il fatto che «la Lombardia è tra le regioni italianè la più povera di canto popolare, cioè naturale» (Passione e ideologia). Si può facilmente obiettare che vi è musicalità e musicalità; che quell'acerbitas (Dante), o quella scarsa disposizione melodica (Pasolini), possono costituire i migliori capisaldi contro certi eccessi di retorica in cui la poesia, quale che ne sia il paese che la vede nascere, tende facilmente a cadere. Ma la questione è un'altra: i lombardi di razza, sempre che questa etnia abbia conservato attraverso i secoli caratteristiche proprie, negative o positive che siano, non rappresentano che una delle tante componenti della fauna poetica sparsa nell'area milanese. Prima ancora che capitale poetica (se la poesia, dal dopoguerra in poi, ha in Italia un polo sicuro, un punto di riferimento, un centro dove più assiduo e vario è il rimaneggiamento dal faro, questo è il capoluogo lombardo), Milano è soprattutto città composita, se non cosmopolita: i suoi poeti, come i suoi abitanti, provengono da tutte le parti della penisola, o anche da più lontano. Un più spedito inserimento geografico nell'Europa dell'Occidente e nell'Europa di mezzo, la significativa molteplicità e influenza delle traduzioni, anche di poesie, vi apportano i necessari correttivi e parametri di confronto con quanto avviene oltralpe. Tastare il polso poetico di questa città vuoi dire farsi un'idea, per lo meno approssimativa, della situazione della poesia dell'ultimo Novecento in Italia. Qual è dunque questa situazione, non tanto considerata dall'esterno, dove non mancano le prove di buona salute, e se ne è visto qualche aspetto, quanto sotto un profilo più specificamente critico? In altre parole i poeti che operano a Milano sul finire degli anni Ottanta sono veramente poeti? Qual è, dove va la loro poesia?
Un '68 di seconda mano
Uscita malconcia da un '68 di seconda o terza mano, più che domestico decisamente provinciale, la vera poesia ha tardato a riprendersi. I soli a non risentire dei contraccolpi dell'offensiva ideologica della fine degli anni Sessanta e dell'inizio degli anni Settanta sono stati i gregari della neoavanguardia e i loro minuscoli eredi; sperimentazione e destabilizzazione si sono date allora la mano sopra il vuoto di una "rivoluzione" in cerca d'introvabili palazzi d'inverno e di più accoglienti fabbricati di mezza stagione: l'università, il «Corriere della Sera», le pasticcerie e le botteghe di delikatessen; finché un bel giorno la società ha integrato gli insorti tutti, della prima e dell'ultima ora, e immaginario, informale, decostruito sono divenuti maniera, accademia, arcadia.
Rileggere le pagine dei giovani poeti dello scorso decennio, così come avrebbero voluto documentarli e magari perpetuarli le antologie loro dedicate, non appare molto dissimile dal. compiere un viaggio organizzato, del tipo "tutto e compreso", dove, si tratti di Canarie e Seychelles, ogni cosa risulta intercambiabile: paesaggio, camera d'albergo, palme, piscina, aperitivi... Forse per una comune cultura o non cultura di base, la si chiamava "feltrinella", scherzando sulle scelte ideologiche del catalogo di una casa editrice, forse per l'omologazione, automatica e inevitabile, di qualsiasi spunto di trasgressione. Se invecchiati sperimentalisti e sprovveduti esordienti attraversano questi anni come crocieristi di un inutile itinerario, i poeti delle generazioni più anziane affrontano, nello stesso periodo, una vera traversata del deserto; ma alla fine vi sarà più esistenza nei testi discreti e liricamente densissimi di un Solmi o di un Sereni, che nei giochetti onirici e nei vocalizzi allitterativi dei poeti della cosiddetta "parola innamorata": un termine, quest'ultimo, chè chiama in causa la poetica del desiderio, del corpo, e altre parigine spiritose invenzioni. Reperti più interessanti, antiquariamente parlando, si possono semmai rinvenire tra le prove dell'arroganza ideologica, specie nell'area delle denunce femministe: dove l'impressione di un curiosum, patetico-grottesco, che si ricava oggi dalla lettura dell'Inno all'utero, o di altre composizioni del genere, non dovrebbe farci dimentichi del jeu de massacre, poetico se non altro, che si praticò in quegli anni a spese degli esordienti.
Si riparte contro le mode
Il decennio successivo e che si è da poco concluso si configura per molti segni come un'età di transizione. Il tempo ha fatto giustizia di tanti miraggi, di tante velleità. Si sente il bisogno di "allungare le radici", non tanto in orizzontale, in direzione d'improbabili fonti, quanto in profondità,·nella più lontana tradizione. Si torna a parlare di mito, perfino: si delineano i grandi temi, gli eterni mitologemi. Non senza un sospetto di dilettantismo: se si potessero analizzare col radio-carbonio i testi di poesia per datarne l'età dei contenuti si scoprirebbe che il mare, tanto per fare un esempio, dei "neoromantici" degli anni Ottanta non è quello di Omero, ma quello del Club Mediterranée. li sociale di ieri ha lasciato il suo impoetico segno sui meno giovani di oggi: che fanno dell'ecologia travestita da orfismo, da orientalismo,da pagana o addirittura cristiana ricerca di un oltre. Allungano più meditatamente le radici i "neobarocchi", al lavoro nei più sicuri terreni del passato letterario, trascritto: recupero dunque delle forme consacrate, per esempio il sonetto, dei dimenticati dettami dell'ars poetica, dei manuali di prosodia e metrica, nella piena fiducia in un destino formale, e solo formale, della poesia.
ll quadro degli operatori di poesia è affollato. Dopo i digiuni della traversata del deserto, dopo i cibi precotti del turismo di massa, dopo il fast food dell'ideologia, ci si sta infine rifocillando come si deve. Sotto la tavola imbandita qualche cane di muso lungo rosicchia gli avanzi. Una misteriosa figura di scorcio attraversa la scena, in diagonale, inseguendo un oggetto indistinto. Come in un dipinto del Veronese, Le nozze di Cana, per esempio. Resta da chiederci se l'acqua diventerà vino.
Luciano Erba
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