Spadaro: non è un'eresia cercare Dio online
![]() Ma non è un’eresia cercare Dio online
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autori: | Antonio Spadaro |
formato: | Articolo |
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La tecnologia web è uno dei modi con cui l’uomo può esprimere la propria spiritualità. Il "nativo digitale spirituale" è una sorta di hacker che nell’interiorità rompe le visioni abituali e automatiche, ponendo domande di senso e aprendo alla trascendenza.
Ricordo un fatto curioso, per certi aspetti: quella sorta di canonizzazione di Steve Jobs alla quale abbiamo assistito alla sua morte. Mai un tempo si sarebbe immaginato di poter assistere alla canonizzazione
di massa dell’amministratore delegato di un’azienda che produce macchine. Se questo è avvenuto, è perché queste "macchine" sempre di più stanno assumendo un valore che tocca le dimensioni più elevate
dell’uomo: pensare, esprimersi, comunicare, capire il mondo.
Vorrei riprendere le parole che nel 1964 Paolo VI pronunciò rivolgendosi al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate diretto dai gesuiti. Il Centro stava elaborando l’analisi elettronica della Summa Theologiae di San Tommaso e del testo biblico. Sono parole di una bellezza sconcertante, a mio avviso: "Ciò che a Noi basta, per
cogliere l’intimo signifi cato di quest’udienza, è notare […] come il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale; e quanto più questo si esprime nel linguaggio suo proprio, ch’è il pensiero, quello sembra godere d’essere alle sue dipendenze". E proseguiva Paolo VI: "Non è cotesto sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato e innalzato a un servizio, che tocca il sacro? È lo spirito che è fatto prigioniero della materia, o non è forse la materia, già domata e obbligata a eseguire leggi dello spirito, che offre allo spirito stesso un sublime ossequio?".
Paolo VI afferma dunque che il "cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale". Aggiunge che l’uomo compie uno "sforzo di infondere in strumenti meccanici il rifl esso di funzioni spirituali". E prosegue affermando che, grazie alla tecnologia, la materia offre "allo spirito stesso un sublime ossequio".
La tecnologia diventa uno dei modi ordinari che l’uomo ha a disposizione per esprimere la sua spiritualità. Se usate saggiamente, dunque, le nuove tecnologie «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano" (Benedetto XVI). "Agendo sulla vita delle persone, i processi mediatici resi possibili da queste tecnologie arrivano a trasformare la realtà stessa. Intervengono in modo incisivo nell’esperienza delle persone e permettono un ampliamento delle potenzialità umane. Dall’infl usso che esercitano dipende la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo" (Instrumentum Laboris del Sinodo
sulla Nuova Evangelizzazione, n. 60).
Qui vorrei soffermarmi su due punti per me particolarmente significativi: la ricerca motorizzata e l’interattività.
Bussola, radar, decoder: come cambia l’umano
Michael Fuller, teologo e chimico organico, autore di Atoms and Icons, ha scritto che i teologi possono utilmente guardare alle evoluzioni scientifi che e tecnologiche per capire quali metafore e analogie possano nutrire il pensare teologico. E io vorrei partire dalla tecnologia della bussola. C’era una volta la bussola. La bussola indica il nord.
Se la bussola non indica il nord è perché non funziona, e non certo perché non esiste il nord. E la bussola era una buona metafora tecnologica del senso della vita.
Ecco, una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale. Come l’ago di una bussola, lui sapeva di essere radicalmente attratto verso una direzione precisa, unica e naturale: il nord.
Poi, specialmente con la Seconda guerra mondiale, l’uomo ha cominciato a usare il radar che serve a rilevare e determinare la posizione di oggetti fi ssi o mobili. Il radar va alla ricerca del suo target e implica un’apertura indiscriminata anche al più blando segnale, non l’indicazione di una direzione precisa. E così anche l’uomo ha cominciato ad andare alla ricerca di un senso per la vita e anche di un Dio capace di qualche segno di riconoscimento, capace di far sentire la sua voce. L’espressione di questa logica è la domanda: "Dio, dove sei?".
Da qui anche l’attesa di Godot di Samuel Beckett e tante pagine della grande letteratura del Novecento, ad esempio. L’uomo era inteso come un "uditore della parola" – per usare una celebre espressione del teologo Karl Rahner, che implicitamente ha dato forma teologica alla metafora tecnologica del radar – alla ricerca di un messaggio del
quale sentiva il bisogno profondo. E oggi? Vale ancora questa immagine? L’uomo è ancora uditore della parola?
In realtà, sebbene sempre viva e vera, per i giovani quest’immagine regge meno. Oggi è più presente l’immagine dell’uomo smarrito se il suo cellulare non ha campo. Se una volta il radar era alla ricerca di un segnale, oggi invece siamo noi a cercare un canale di accesso attraverso il quale i dati possano passare.
L’uomo, oggi, più che cercare segnali, è abituato a cercare di essere sempre nella possibilità di riceverli senza però necessariamente cercali. L’estrema conseguenza è la logica introdotta dal sistema push: quando un dato è disponibile (una email, ad esempio) io lo ricevo in maniera automatica perché tengo aperto un canale di ricezione.
L’uomo, da bussola prima e radar poi, si sta trasformando dunque in un decoder, cioè un sistema di accesso e di decodifi cazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono senza che lui si preoccupi di andarle a cercare. Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information
overload. Il problema non è reperire il messaggio di senso, ma decodificarlo, riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che io ricevo.
Prima vengono le risposte, ed è da queste che l’uomo è chiamato a riconoscere le sue domande più radicali e autentiche. Allora è oggi importante non tanto dare risposte: tutti danno risposte! "The teacher doesn’t need to give any answer because answers are everywhere" (Sugata Mitra, professore di Educational Technology alla Newcastle University). Oggi è importante riconoscere le domande importanti, quelle fondamentali.
L’interiorità al tempo del lifestreaming
Di tutto il lifestreaming di rete resta traccia. Come tutti ben sappiamo, infatti, ormai la rete tiene traccia e memoria di noi: le foto taggate, geolocalizzate, collocate nel tempo esatto in cui sono state condivise sono l’album fotografico live della nostra vita; i nostri tweet o gli update dello stato su Facebook e i post dei nostri blog conservano i nostri pensieri, ma anche i nostri stati emotivi; le librerie online e gli altri negozi tengono traccia dei nostri gusti, delle nostre scelte, dei nostri acquisti e a volte anche dei commenti; i video su YouTube costruiscono per frammenti il film della nostra vita fatto dai nostri video e da quelli che ci piacciono. Infatti lo streaming della nostra vita non è fatto
solo di ciò che immettiamo in rete, ma anche di ciò che "gradiamo", da ciò che ci piace, e che segnaliamo agli altri anche grazie al pulsante like ai nostri follower e ai nostri friend.
L’esperienza condivisa sui social network è l’opposto di ciò che accadeva ai tempi di Robert Musil quando scriveva: "La probabilità di apprendere dal giornale una vicenda straordinaria è molto maggiore di quella di viverla personalmente". Oggi invece i social network offrono l’opportunità di rendere più signifi cativa l’esperienza vissuta
soggettivamente proprio grazie alla pubblicazione e alla condivisione in una rete di relazioni. Le notizie dei giornali sono irrelate a me e dunque, in un certo senso, fi niscono per essere percepite come meno "straordinarie", o comunque meno interessanti.
La rete è un’opportunità, perché narrare, in ogni caso, è restituire i soggetti della conoscenza alla densità simbolica ed esperienziale del mondo. E oggi è molto alimentato il bisogno di narrazione all’interno di legami e relazioni. La narrazione di rete può essere, sì, individualistica e autoreferenziale, ma può essere anche polifonica e aperta.
Interessante, a questo proposito, la possibilità di aggregare materiali condivisi su differenti social network su una piattaforma come Storify che permette l’interconnessione con Twitter, Facebook, Flickr, Youtube… e le apre alla condivisione. Alla base è la consapevolezza che ciascuno di noi è un living link. L’interattività è la cifra radicale di
questo lifestreaming.
Allora qual è la grande sfida? Lo dicevo prima: trovare "un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente", cantava Franco Battiato nel lontano 1982.
Una grande sfida riguarda l’esperienza dell’interiorità che l’uomo di oggi, specialmente se giovane, è in grado di compiere. L’uomo che ha una certa abitudine all’esperienza di internet appare più pronto all’interazione che all’interiorizzazione. E generalmente "interiorità" è sinonimo di profondità, mentre "interattività" è spesso sinonimo di
superficialità. Saremo condannati alla superficialità? È possibile coniugare profondità e interattività? La sfida è di grande portata.
Certamente occorre salvaguardare spazi che permettano all’interiorità di svilupparsi senza interferenze o "rumori" che distraggano l’uomo dalle sue domande radicali e dal suo bisogno di silenzio e di meditazione. Tuttavia possiamo constatare che l’uomo di oggi, abituato all’interattività, interiorizza le esperienze se è in grado di tessere con esse una relazione viva e non puramente passiva, recettiva.
L’uomo di oggi ritiene valide le esperienze nelle quali è richiesta la sua "partecipazione" e il suo coinvolgimento. In generale, se l’oggetto di conoscenza non viene tradotto in esperienza di azione da parte del soggetto conoscente, esso gli rimane estraneo, non signifi cativo; diventa banale. Aveva ragione Gianbattista Vico quando formulava la linea guida della "scienza nuova": verum ipsum factum, "la verità è nello stesso fare". È possibile
davvero conoscere un oggetto solo da parte di chi ha contribuito a costruirlo, a farlo, e vi riconosca gli effetti e le impronte della propria azione.
Nel web inteso come luogo antropologico non ci sono "profondità" da esplorare ma "nodi" da navigare e connettere tra di loro in maniera fitta. Ciò che appare "superficiale" è solamente il procedere in modo, magari inatteso e non previsto, da un nodo all’altro. La spiritualità dell’uomo contemporaneo è molto sensibile a queste esperienze.
Alessandro Baricco ha descritto questa mutazione in atto nella cultura del mondo occidentale in un saggio dal significativo titolo: I barbari. All’immagine romantica dell’uomo colto, chino sul libro nella penombra di un salotto con le fInestre chiuse, si sostituisce quella del surfer che pattina sul pelo dell’acqua all’inseguimento del senso là dove è vivo in superficie. Dunque: "La superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione".
Quale sarà dunque la spiritualità dei barbari, la spiritualità di quei nativi digitali il cui modus cogitandi è in fase di "mutazione" a causa del loro abitare nell’ambiente digitale?
Italo Calvino, in un saggio dal titolo Cibernetica e fantasmi, notava che il pensiero «fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fi ume che scorre o un filo che si dipana, oppure immagini gassose, come una specie di nuvola, tant’è vero che veniva spesso chiamato "lo spirito".
Ecco, per Calvino oggi i cervelli elettronici sono già in grado di "fornirci un modello teorico convincente per i processi più complessi della nostra memoria, delle nostre associazioni mentali, della nostra immaginazione, della nostra coscienza". Calvino ha ragione? La sua tesi è sensata? Se ne potrebbe discutere, forse anche alla luce di quella
che Raimondo Lullo chiamava ars magna e che poi Leibniz chiamò ars combinatoria. E tuttavia ciò che distingue l’uomo dalla macchina ordinatrice (ordinateur) è proprio il disordine. Ciò che la macchina non produce è il disordine. La macchina ordina. Quindi occorre non lamentarci troppo del disordine, perché qui sta l’eccezione logica
dell’uomo sulla macchina.
Anzi: il nativo digitale spirituale forse è proprio una sorta di hacker, colui che vive la spiritualità come hacking interiore, cioè qualcosa che rompe il sistema e che ne cambia le regole, le visioni abituali, le logiche automatiche, ponendo la domanda di senso e aprendo il nostro sistema operativo interiore chiuso e spesso considerato come autosufficiente alla trascendenza.
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Ricordo un fatto curioso, per certi aspetti: quella sorta di canonizzazione di Steve Jobs alla quale abbiamo assistito alla sua morte. Mai un tempo si sarebbe immaginato di poter assistere alla canonizzazione
di massa dell’amministratore delegato di un’azienda che produce macchine. Se questo è avvenuto, è perché queste "macchine" sempre di più stanno assumendo un valore che tocca le dimensioni più elevate
dell’uomo: pensare, esprimersi, comunicare, capire il mondo.
Vorrei riprendere le parole che nel 1964 Paolo VI pronunciò rivolgendosi al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate diretto dai gesuiti. Il Centro stava elaborando l’analisi elettronica della Summa Theologiae di San Tommaso e del testo biblico. Sono parole di una bellezza sconcertante, a mio avviso: "Ciò che a Noi basta, per
cogliere l’intimo signifi cato di quest’udienza, è notare […] come il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale; e quanto più questo si esprime nel linguaggio suo proprio, ch’è il pensiero, quello sembra godere d’essere alle sue dipendenze". E proseguiva Paolo VI: "Non è cotesto sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato e innalzato a un servizio, che tocca il sacro? È lo spirito che è fatto prigioniero della materia, o non è forse la materia, già domata e obbligata a eseguire leggi dello spirito, che offre allo spirito stesso un sublime ossequio?".
Paolo VI afferma dunque che il "cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale". Aggiunge che l’uomo compie uno "sforzo di infondere in strumenti meccanici il rifl esso di funzioni spirituali". E prosegue affermando che, grazie alla tecnologia, la materia offre "allo spirito stesso un sublime ossequio".
La tecnologia diventa uno dei modi ordinari che l’uomo ha a disposizione per esprimere la sua spiritualità. Se usate saggiamente, dunque, le nuove tecnologie «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano" (Benedetto XVI). "Agendo sulla vita delle persone, i processi mediatici resi possibili da queste tecnologie arrivano a trasformare la realtà stessa. Intervengono in modo incisivo nell’esperienza delle persone e permettono un ampliamento delle potenzialità umane. Dall’infl usso che esercitano dipende la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo" (Instrumentum Laboris del Sinodo
sulla Nuova Evangelizzazione, n. 60).
Qui vorrei soffermarmi su due punti per me particolarmente significativi: la ricerca motorizzata e l’interattività.
Bussola, radar, decoder: come cambia l’umano
Michael Fuller, teologo e chimico organico, autore di Atoms and Icons, ha scritto che i teologi possono utilmente guardare alle evoluzioni scientifi che e tecnologiche per capire quali metafore e analogie possano nutrire il pensare teologico. E io vorrei partire dalla tecnologia della bussola. C’era una volta la bussola. La bussola indica il nord.
Se la bussola non indica il nord è perché non funziona, e non certo perché non esiste il nord. E la bussola era una buona metafora tecnologica del senso della vita.
Ecco, una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale. Come l’ago di una bussola, lui sapeva di essere radicalmente attratto verso una direzione precisa, unica e naturale: il nord.
Poi, specialmente con la Seconda guerra mondiale, l’uomo ha cominciato a usare il radar che serve a rilevare e determinare la posizione di oggetti fi ssi o mobili. Il radar va alla ricerca del suo target e implica un’apertura indiscriminata anche al più blando segnale, non l’indicazione di una direzione precisa. E così anche l’uomo ha cominciato ad andare alla ricerca di un senso per la vita e anche di un Dio capace di qualche segno di riconoscimento, capace di far sentire la sua voce. L’espressione di questa logica è la domanda: "Dio, dove sei?".
Da qui anche l’attesa di Godot di Samuel Beckett e tante pagine della grande letteratura del Novecento, ad esempio. L’uomo era inteso come un "uditore della parola" – per usare una celebre espressione del teologo Karl Rahner, che implicitamente ha dato forma teologica alla metafora tecnologica del radar – alla ricerca di un messaggio del
quale sentiva il bisogno profondo. E oggi? Vale ancora questa immagine? L’uomo è ancora uditore della parola?
In realtà, sebbene sempre viva e vera, per i giovani quest’immagine regge meno. Oggi è più presente l’immagine dell’uomo smarrito se il suo cellulare non ha campo. Se una volta il radar era alla ricerca di un segnale, oggi invece siamo noi a cercare un canale di accesso attraverso il quale i dati possano passare.
L’uomo, oggi, più che cercare segnali, è abituato a cercare di essere sempre nella possibilità di riceverli senza però necessariamente cercali. L’estrema conseguenza è la logica introdotta dal sistema push: quando un dato è disponibile (una email, ad esempio) io lo ricevo in maniera automatica perché tengo aperto un canale di ricezione.
L’uomo, da bussola prima e radar poi, si sta trasformando dunque in un decoder, cioè un sistema di accesso e di decodifi cazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono senza che lui si preoccupi di andarle a cercare. Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information
overload. Il problema non è reperire il messaggio di senso, ma decodificarlo, riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che io ricevo.
Prima vengono le risposte, ed è da queste che l’uomo è chiamato a riconoscere le sue domande più radicali e autentiche. Allora è oggi importante non tanto dare risposte: tutti danno risposte! "The teacher doesn’t need to give any answer because answers are everywhere" (Sugata Mitra, professore di Educational Technology alla Newcastle University). Oggi è importante riconoscere le domande importanti, quelle fondamentali.
L’interiorità al tempo del lifestreaming
Di tutto il lifestreaming di rete resta traccia. Come tutti ben sappiamo, infatti, ormai la rete tiene traccia e memoria di noi: le foto taggate, geolocalizzate, collocate nel tempo esatto in cui sono state condivise sono l’album fotografico live della nostra vita; i nostri tweet o gli update dello stato su Facebook e i post dei nostri blog conservano i nostri pensieri, ma anche i nostri stati emotivi; le librerie online e gli altri negozi tengono traccia dei nostri gusti, delle nostre scelte, dei nostri acquisti e a volte anche dei commenti; i video su YouTube costruiscono per frammenti il film della nostra vita fatto dai nostri video e da quelli che ci piacciono. Infatti lo streaming della nostra vita non è fatto
solo di ciò che immettiamo in rete, ma anche di ciò che "gradiamo", da ciò che ci piace, e che segnaliamo agli altri anche grazie al pulsante like ai nostri follower e ai nostri friend.
L’esperienza condivisa sui social network è l’opposto di ciò che accadeva ai tempi di Robert Musil quando scriveva: "La probabilità di apprendere dal giornale una vicenda straordinaria è molto maggiore di quella di viverla personalmente". Oggi invece i social network offrono l’opportunità di rendere più signifi cativa l’esperienza vissuta
soggettivamente proprio grazie alla pubblicazione e alla condivisione in una rete di relazioni. Le notizie dei giornali sono irrelate a me e dunque, in un certo senso, fi niscono per essere percepite come meno "straordinarie", o comunque meno interessanti.
La rete è un’opportunità, perché narrare, in ogni caso, è restituire i soggetti della conoscenza alla densità simbolica ed esperienziale del mondo. E oggi è molto alimentato il bisogno di narrazione all’interno di legami e relazioni. La narrazione di rete può essere, sì, individualistica e autoreferenziale, ma può essere anche polifonica e aperta.
Interessante, a questo proposito, la possibilità di aggregare materiali condivisi su differenti social network su una piattaforma come Storify che permette l’interconnessione con Twitter, Facebook, Flickr, Youtube… e le apre alla condivisione. Alla base è la consapevolezza che ciascuno di noi è un living link. L’interattività è la cifra radicale di
questo lifestreaming.
Allora qual è la grande sfida? Lo dicevo prima: trovare "un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente", cantava Franco Battiato nel lontano 1982.
Una grande sfida riguarda l’esperienza dell’interiorità che l’uomo di oggi, specialmente se giovane, è in grado di compiere. L’uomo che ha una certa abitudine all’esperienza di internet appare più pronto all’interazione che all’interiorizzazione. E generalmente "interiorità" è sinonimo di profondità, mentre "interattività" è spesso sinonimo di
superficialità. Saremo condannati alla superficialità? È possibile coniugare profondità e interattività? La sfida è di grande portata.
Certamente occorre salvaguardare spazi che permettano all’interiorità di svilupparsi senza interferenze o "rumori" che distraggano l’uomo dalle sue domande radicali e dal suo bisogno di silenzio e di meditazione. Tuttavia possiamo constatare che l’uomo di oggi, abituato all’interattività, interiorizza le esperienze se è in grado di tessere con esse una relazione viva e non puramente passiva, recettiva.
L’uomo di oggi ritiene valide le esperienze nelle quali è richiesta la sua "partecipazione" e il suo coinvolgimento. In generale, se l’oggetto di conoscenza non viene tradotto in esperienza di azione da parte del soggetto conoscente, esso gli rimane estraneo, non signifi cativo; diventa banale. Aveva ragione Gianbattista Vico quando formulava la linea guida della "scienza nuova": verum ipsum factum, "la verità è nello stesso fare". È possibile
davvero conoscere un oggetto solo da parte di chi ha contribuito a costruirlo, a farlo, e vi riconosca gli effetti e le impronte della propria azione.
Nel web inteso come luogo antropologico non ci sono "profondità" da esplorare ma "nodi" da navigare e connettere tra di loro in maniera fitta. Ciò che appare "superficiale" è solamente il procedere in modo, magari inatteso e non previsto, da un nodo all’altro. La spiritualità dell’uomo contemporaneo è molto sensibile a queste esperienze.
Alessandro Baricco ha descritto questa mutazione in atto nella cultura del mondo occidentale in un saggio dal significativo titolo: I barbari. All’immagine romantica dell’uomo colto, chino sul libro nella penombra di un salotto con le fInestre chiuse, si sostituisce quella del surfer che pattina sul pelo dell’acqua all’inseguimento del senso là dove è vivo in superficie. Dunque: "La superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione".
Quale sarà dunque la spiritualità dei barbari, la spiritualità di quei nativi digitali il cui modus cogitandi è in fase di "mutazione" a causa del loro abitare nell’ambiente digitale?
Italo Calvino, in un saggio dal titolo Cibernetica e fantasmi, notava che il pensiero «fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fi ume che scorre o un filo che si dipana, oppure immagini gassose, come una specie di nuvola, tant’è vero che veniva spesso chiamato "lo spirito".
Ecco, per Calvino oggi i cervelli elettronici sono già in grado di "fornirci un modello teorico convincente per i processi più complessi della nostra memoria, delle nostre associazioni mentali, della nostra immaginazione, della nostra coscienza". Calvino ha ragione? La sua tesi è sensata? Se ne potrebbe discutere, forse anche alla luce di quella
che Raimondo Lullo chiamava ars magna e che poi Leibniz chiamò ars combinatoria. E tuttavia ciò che distingue l’uomo dalla macchina ordinatrice (ordinateur) è proprio il disordine. Ciò che la macchina non produce è il disordine. La macchina ordina. Quindi occorre non lamentarci troppo del disordine, perché qui sta l’eccezione logica
dell’uomo sulla macchina.
Anzi: il nativo digitale spirituale forse è proprio una sorta di hacker, colui che vive la spiritualità come hacking interiore, cioè qualcosa che rompe il sistema e che ne cambia le regole, le visioni abituali, le logiche automatiche, ponendo la domanda di senso e aprendo il nostro sistema operativo interiore chiuso e spesso considerato come autosufficiente alla trascendenza.
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