Dopo Auschwitz e Kolyma fare letteratura si può
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autori: | Adriano Dell'Asta |
formato: | Articolo |
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Adriano Dell’Asta
Contro le tesi di Adorno, gli scritti nati dai campi di sterminio insegnano che dalla tragedia delle “idee omicide” si esce rivendicando l’irriducibilità della verità e il mistero della realtà, l’indicibile che strappa dall’oblio del tempo. Tale è l’arte.
Vorrei mostrare che non solo è possibile una critica letteraria come scienza, ma che la critica letteraria si erge a livello scientifico quando studia il suo oggetto da un punto di vista religioso. Per cercare di illustrare la ragionevolezza di quella che può apparire una pretesa addirittura eccessiva, che esista cioè una critica letteraria come scienza e che si possano accostare concetti come quelli di scienza e fede, svilupperò il mio discorso mettendo in discussione i suoi stessi oggetti; partirò, cioè, mettendo in dubbio l’esistenza stessa, oggi, dell’arte in quanto tale, e mettendo in dubbio la conciliabilità di scienza e fede.
Cominciamo dunque con il chiederci che senso abbia parlare di una critica letteraria come scienza in un mondo nel quale l’arte viene sempre più considerata (e praticata) come un puro gioco e quasi come un’inutile perdita di tempo, mentre la scienza pare essere destinata soltanto a produrre. Da una parte, abbiamo romanzi che segnano la fine del romanzo e libri che segnano la fine della scrittura; dall’altra, abbiano ricerche sofisticate e costosissime (penso ad esempio alla ricerca del bosone di Higgs), per giustificare le quali non si parla del senso della scienza o della ricerca, ma si ricorda soltanto che per svolgere queste ricerche si realizzano macchine e metodologie con una immediata applicazione pratica. Parlare di arte e di critica letteraria come scienza sullo sfondo di una simile mentalità sembra assurdo. E, più radicalmente ancora, sembra assurdo parlare dell’arte, della forma (obraz) e del bello in un mondo che ha conosciuto durante il XX e XXI secolo il trionfo del male assoluto, del brutto (bezobraznyj), fino quasi ad arrivare alla distruzione dell’uomo, alla distruzione dell’immagine (obraz) divina che distingue l’uomo da tutte le altre creature.
È noto a questo proposito l’aforisma di Adorno secondo il quale dopo Auschwitz non sarebbe più possibile fare poesia e anzi ogni opera poetica sarebbe "un atto di barbarie". Quello che era accaduto era stato così terribile e disumanizzante, aveva così profondamente deformato l’immagine dell’uomo, che non solo non ci si poteva più attendere o cercare alcuna catarsi artistica, ma non si poteva più nemmeno pensare alla possibilità dell’arte.
Potremmo facilmente contestare questa affermazione ricordando che, non solo dopo Auschwitz e dopo la Kolyma, ma proprio a partire da Auschwitz e dalla Kolyma sono nate alcune delle opere letterarie più alte di tutta la storia della letteratura mondiale (le opere di Primo Levi per la letteratura italiana, o le opere di Solženicyn e di Šalamov per la letteratura russa, ad esempio). Ma non possiamo limitarci a questo: non capiremmo la vera natura della posizione di Adorno e soprattutto non potremmo uscire dal vicolo cieco delle opposizioni tra arte e scienza, fede e ragione, verità assenza di verità, libertà e servitù, ordine e anarchia, identità e diversità; non potremmo uscire, cioè, dal vicolo cieco nel quale sembra condannata a morire la cultura contemporanea.
In effetti, Adorno non era un uomo senza cultura e privo di gusto estetico: era un intellettuale finissimo, al quale dobbiamo alcune delle opere più significative della filosofia del XX secolo; se arriva a una negazione così radicale della cultura dobbiamo cercare il motivo di questa negazione in qualcosa di ben diverso.
Il motivo della posizione di Adorno ci appare in tutta la sua chiarezza e profondità in una sua riflessione sulla questione del dolore e della possibilità di raccontarlo; dice a questo proposito Adorno: "Quando si parla delle cose estreme, della morte atroce, si prova una sorta di vergogna nei confronti della forma, come se questa fosse un oltraggio alla sofferenza riducendola impietosamente allo stato di un materiale messo a sua disposizione". Se Adorno arriva a rifiutare la cultura, l’arte, la bellezza, la forma, non è per assenza di cultura, ma per una sorta di paura della forma (per la "vergogna nei confronti della forma"), che viene alla luce quando parla del dolore e non riesce a superare l’alternativa tra l’indicibilità della sua insensatezza e del suo scandalo (che trasforma ogni racconto in un oltraggio, in una violazione dell’intimità) e un racconto che si concepisce solo come una forma di dominio, così che se il dolore viene detto finirebbe per essere dominato e per perdere il suo scandalo, la sua realtà più profonda. Per Adorno o domina un senso, una parola che elimina lo scandalo del male e del dolore, oppure resta soltanto l’assenza di ogni parola, di ogni cultura, di ogni ricerca di senso: la realtà innegabile del dolore o viene annullata perché si crede di non poterla dire, oppure viene annullata perché, se viene detta, perde la sua essenza di indicibilità; entrambe le conclusioni, come si capisce, sono assurde in quanto negano la nostra esperienza reale.
Per altro, dietro questa assurdità si cela una delle convinzioni più diffuse dell’uomo moderno, per il quale affermare che esiste una verità significa inevitabilmente negare la complessità del reale e, in ultima analisi, negare la libertà: una convinzione confermata, a prima vista, dalle tragedie prodotte nel XX secolo dalle “idee omicide”, che con le loro verità partitiche o razziali hanno prodotto milioni di vittime.
In fondo siamo di fronte alla stessa alternativa che porta a rendere inconcepibile per l’uomo moderno la coesistenza di fede e ragione, secondo questa alternativa: o c’è la libera ricerca della ragione che rinuncia all’affermazione di qualsiasi verità, oppure c’è la fede e quindi domina un’opinione acriticamente e dogmaticamente accettata e imposta come verità assoluta, al di fuori di ogni verifica razionale. Sembra una situazione davvero senza via di uscita. Dopo secoli di contrapposizione tra fede e ragione, viviamo in un mondo nel quale la Russia, con l’ateismo scientifico del marxismo, ha conosciuto una negazione della fede così assoluta che ha preteso di diventare essa stessa scienza; d’altro canto, l’Occidente non ha dato certo un esempio migliore se Heidegger, da posizioni diametralmente opposte, ha definito la filosofia cristiana un "ferro di legno", cioè una cosa semplicemente priva di significato.
È vero che anche in questo caso, come in quello di Adorno, potremmo chiudere la questione ricordando che in fondo la storia è piena di esempi che ci dimostrano il contrario, che ci dimostrano cioè che è assolutamente possibile l’esercizio di una ragione credente: dalla filosofia di sant’Agostino, di san Tommaso e di Pascal a quella di Vladimir Solov’ëv. Potremmo cercare di uscire dai nostri vicoli ciechi in questo modo, ma in realtà non andremmo molto lontano, perché la contrapposizione riprenderebbe immediatamente, con i partigiani del razionalismo esclusivo che non avrebbero difficoltà a ribattere che gli autori citati non sono veri filosofi, poiché nel loro argomentare entrano concetti e idee che in realtà sono pure elucubrazioni, in quanto rinviano a un Dio che nessuno vede, mentre la vera conoscenza, il vero sapere, la vera ragione si fondano sull’esperienza concreta e materiale. A questo punto potremmo ribattere a nostra volta, rinviando a un’esperienza che, dal nostro punto di vista, è più ricca di quella materiale. In questo modo però entreremmo in un vicolo ancora più cieco, quello della contrapposizione dei punti di vista e delle interpretazioni: interessantissima là dove ci costringe a fare i conti con la nostra capacità di interpretare il reale, mortale là dove la discussione sulle interpretazioni si sostituisce alla loro verifica da parte della realtà. Ora, il nostro problema è esattamente uscire da questa contrapposizione che non porta da nessuna parte e che, a uno sguardo più attento, dipende da una serie di presupposti di metodo del tutto ingiustificati: invece di sottoporre l’interpretazione alla verifica della realtà, si fa dipendere la verità e la stessa realtà dall’interpretazione del singolo. Siamo un po’ come un alpinista che improvvisamente negasse l’esistenza dell’Everest per il semplice fatto che si trova con le spalle rivolte alla montagna: chiaramente dal suo punto di vista non la vede e, altrettanto chiaramente, dal suo punto di vista ha perfettamente ragione a dire che non esiste, ma ancor più chiaramente la sua posizione è assolutamente irragionevole.
Il problema non può essere risolto trovando un punto di vista superiore agli altri, per il semplice fatto che i punti di vista, in quanto tali, saranno sempre e inevitabilmente parziali. E comunque non potranno mai sostituire la realtà. Si tratta piuttosto di verificare se invece di partire dai punti di vista sull’esperienza non sia più corretto e produttivo partire dall’esperienza stessa, e cominciare con il chiederci se sia poi così certo e indiscutibile che conoscenza, ragione e scienza sono contrapposte alla fede in nome dell’esperienza o se l’esperienza non ci dica qualcosa di molto diverso.
Proviamo a leggere la definizione di esperienza che ci viene offerta dal dizionario enciclopedico Brockhaus-Efron: "L’esperienza è la fonte primaria delle nostre conoscenze, quella che dà il materiale per ogni altra conoscenza. A seconda dei diversi punti di vista, l’esperienza si divide in diretta e indiretta, interna ed esterna, di vita e scientifica. Gli stati che vengono vissuti e che sono stati vissuti dal soggetto dato costituiscono la sua esperienza diretta o immediata; la testimonianza attendibile delle esperienze altrui costituisce per questo stesso soggetto l’esperienza indiretta. Le conoscenze che si hanno sull’America, chiunque sia quello che le possiede, sono comunque (per la loro origine) frutto di esperienza, dato che simili cognizioni non sono da noi acquisite né attraverso il puro pensiero né attraverso una rivelazione dall’alto; ma è evidente che per chi non è stato in America, ogni conoscenza empirica su di essa viene acquisita solo in maniera indiretta, attraverso l’assimilazione delle esperienze altrui. Con il progresso della vita personale e collettiva, questi due tipi di esperienza crescono in maniera diseguale: quella indiretta diventa senz’altro prevalente".
Questa definizione, che appartiene alla penna di Solov’ëv, ci dice due cose fondamentali. Innanzitutto ci dice che il funzionamento normale della nostra ragione, a prescindere dai punti di vista che si possano avere su di essa, è fatto in modo tale che la nostra ragione, nella ricerca e nella costruzione del sapere, non esclude la fede, ma anzi la esige (se non sono mai stato in America, devo fidarmi, devo avere fede in chi ci è stato); e quanto più crescono le conoscenze e quanto più crescono le persone alle quali queste conoscenze vengono trasmesse, tanto più la ragione ha bisogno della fede e si fonda su di essa. Insomma la fede, lungi dall’opporsi alla conoscenza e alla ragione le fa crescere e le diffonde.
Ma Solov’ëv ci dice anche un’altra cosa molto importante e decisiva: mentre normalmente, descrivendo il processo della conoscenza, si oppongono i fatti alla loro interpretazione (nel linguaggio della definizione di Solov’ëv, si oppone il fatto di "essere stato in America" alle opinioni acquisite "attraverso il puro pensiero" o "attraverso una rivelazione dall’alto"), in questo caso la conoscenza non è costituita innanzitutto dai semplici fatti o dalle loro interpretazioni, ma dalla trasmissione dell’esperienza, e la trasmissione di un’esperienza è qualcosa di più e di diverso rispetto al semplice fatto o alla sua interpretazione, è una relazione e una relazione del tutto particolare: nella conoscenza come la descrive Solov’ëv c’è qualcosa da trasmettere, e qualcuno che trasmette qualcosa che non ha fatto lui, qualcosa di cui non è padrone, di cui non ha alcun dominio, al punto che può anche darsi non lo abbia assolutamente visto, pur essendo certo della sua esistenza e pur godendo di questa esistenza al punto di ritenerla degna di comunicazione e di condivisione, al punto cioè di ritenere che sia bene farcela conoscere.
In questo modo, mentre il processo di conoscenza viene normalmente presentato come qualcosa che implica una inevitabile e insuperabile contrapposizione tra i fatti e la loro interpretazione, per cui o prevalgono i fatti o prevale la nostra interpretazione, attraverso la definizione di Solov’ëv noi scopriamo un processo di conoscenza completamente diverso, che ha in primo piano un progetto di senso, per cui l’esistenza stessa delle cose e il fatto di conoscerle rimanda a questo progetto, al senso delle cose; un senso che ci è offerto, come ci sono offerte le cose, da qualcuno al quale noi rispondiamo, giudicando l’esistenza delle cose, apprezzandone il senso fino al punto di comunicarlo ai nostri simili. Le cose, i fatti, invece di contrapporsi alla loro interpretazione, al loro senso, ci rimandano continuamente a questo senso, in un processo di conoscenza integrale (cel’noe znanie), che non conosce più contrapposizioni, pur non avendo mai la pretesa di dominare o di creare la realtà.
Non possiamo a questo punto sviluppare compiutamente tutti i passaggi del nostro discorso, basti però ricordare che esattamente questo progetto di senso è quello che ci viene trasmesso dalla letteratura che secondo Adorno doveva essere impossibile dopo Auschwitz e la Kolyma e che invece nacque esattamente da Auschwitz e dalla Kolyma; là dove sembrava essersi creata un’assoluta opposizione tra la realtà e l’interpretazione della realtà, tra la realtà e l’ideologia, al punto che sembrava che la realtà, travolta dall’ideologia, dovesse totalmente scomparire, la letteratura dei campi ci ha mostrato, invece, che esistevano una realtà e una verità irriducibili a qualsiasi idea: là dove le ideologie eliminavano il concetto stesso di uomo, sostituendolo con quello di nemico oggettivo o di “sottouomo”, degni soltanto di eliminazione fi sica, le letterature nate dai campi ci hanno mostrato che l’uomo era irriducibile a queste idee e che il suo mistero continuamente rinasceva, a dispetto di tutti i tentativi delle ideologie di ridurlo secondo le loro misure e di eliminarlo.
La letteratura nata dai campi ci ha mostrato che dalla tragedia delle “idee omicide” e dalla contrapposizione tra una verità ideologica e l’assenza di verità non si usciva affermando un’idea più ricca o negando qualsiasi verità (soluzione che avrebbe segnato la vittoria definitiva dell’ideologia in quanto la sua natura è rappresentata proprio dalla pretesa di sostituire la verità e la realtà con un’idea); si trattava piuttosto di affermare l’irriducibilità della verità e della realtà a una qualsiasi idea.
In questo senso, però, l’arte nata dai campi è solo il culmine ultimo e il vertice più alto di tutta l’arte, che è tale in quanto ci trasmette il mistero della realtà, l’indicibile che sta al cuore di ogni cosa e che strappa le cose di tutti i giorni dall’oblio del tempo, rendendole eternamente degne di ammirazione, di contemplazione e di conoscenza. In questo modo, da ultimo, l’arte – invece di contrapporsi alla scienza – si inserisce in un identico processo che, per l’arte come per la scienza, inizia dalla percezione delle cose come portatrici di un mistero da indagare e culmina nella scoperta di un mistero ancora più grande, da indagare ancora più in profondità: "Da inizio in inizio secondo inizi che non hanno mai fine".
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