Intellettuali non più chierici. Asceti o ingegneri?

Intellettuali non più chierici. Asceti o ingegneri?

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Intellettuali non più chierici. Asceti o ingegneri?
autori: Giuseppe Lupo
formato: Articolo
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Nell’eterno dibattito sulla loro funzione, non c’è solo il rischio che tradiscano, ma che spariscano, per mancanza di credibilità. L’incrocio tra etica, cultura e politica – vero nodo da affrontare – resta un interrogativo insoluto. Il modello? Simone Weil.

Ammettiamo che Mosè sia un individuo chiamato a svolgere compiti assegnati agli intellettuali secondo quel che prevede una certa, consolidata tradizione: ascoltare messaggi che provengono da un altrove e metterli per iscritto in un linguaggio accessibile al popolo oppure, per esempio, elargire risposte e soluzioni alle esigenze di una comunità pur non essendo indicato, per meriti e per vocazione, a fare opera di governo; ammettiamo che il suo ruolo sia stato lo stesso a cui un tempo aspirava il poeta-vate (indicare la direzione verso cui marciare), ci sarà senz’altro un motivo se, dopo essere arrivato a ridosso della terra di Canaan, Dio lo abbia condannato a restarne fuori e a contemplarla dalla cima del monte Nebo, dove peraltro muore. Claudio Magris, in Utopia e disincanto (1998), ha affrontato questo tema e lo ha interpretato nella sua forma più rassicurante, ribaltando la punizione in qualcosa che, anziché azzerarsi ogni speranza, tende la mano verso l’utopia. «Il destino di ogni uomo, e della Storia stessa» – scrive – «assomiglia a quello di Mosè, che non raggiunse la Terra Promessa, ma non smise di camminare nella sua direzione. Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere».

Per Magris la nozione di utopia coincide, dunque, con la testarda ricerca di approdi, anche quando di essi si ha una percezione vaga e la loro presenza è qualcosa di incerto e di inutile. Però non è detto che questa sia l’unica, possibile chiave di lettura. Come in numerosi altri passi cruciali della Bibbia, ciò che avviene al termine del Pentateuco (Dt 34,1-8) va osservato a diversi gradi di esemplarità e spesso la soluzione non sta tanto sul piano dei significati letterali, quanto nei suoi sostrati simbolici. Sembrerà un paradosso, ma la missione di Mosè si conclude proprio nella fase culminante della sua impresa, a ridosso del traguardo, ed egli davvero per un soffio non riesce a portare a termine ciò che si era prefissato. Per quanto risulti ingiustificabile agli occhi di una qualsiasi idea razionale di progresso, la sua sorte prefigura l’epilogo a cui sono condannati coloro i quali assomigliano a lui: sapere dove andare, ma non poterci andare, avere ben chiara la strada da percorrere ed essere fermati prima di incamminarsi.

Tutto ciò non può non assumere valore nei termini di una scommessa mancata sul futuro che si prospetta in chi intende ricoprire il ruolo del poeta-guida. In altre parole, se Mosè svolge le funzioni di un intellettuale, proprio agli intellettuali – verrebbe da dire – è vietato portare a compimento l’opera iniziata. Essi devono limitarsi a dare inizio a qualcosa a cui è destino che rinuncino. Ed è questo il dramma insito nel loro statuto di individui pensanti: cominciare sapendo di non finire, restare a livello di soglia o di vigilia, accettare che il loro portato culturale e morale rimanga nello stato di progetto, cioè sia profezia, prefigurazione, utopia. Mosè è un personaggio malinconico quando accetta di non poter entrare nella terra di Canaan, reca in faccia i segni della delusione e del disincanto, vive il proprio fallimento come annullamento di ciò in cui ha creduto. In questo suo rimanere in esilio rispetto alla città, «non in terra promessa» ma «in margine all’accampamento», come scrive Erri De Luca in E disse (2011), sta la sconfitta più grande, ma anche la sua fortuna.

Pensare che siano gli intellettuali a dare forma al mondo potrebbe diventare un cattivo sogno, un incubo che talvolta prefigura perfino il rischio di una dittatura. Ma è certo che in questa lunga contesa tra coscienza individuale e comunità di appartenenza si mette in gioco ogni tipo di credibilità.

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Giuseppe Lupo

Giuseppe Lupo, scrittore e saggista è docente di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Brescia. È autore di romanzi e saggi, con cui ha vinto numerosi premi letterari, fra cui il premio Viareggio-Repaci e il premio Selezione Campiello, collabora alle pagine culturali di «Avvenire» e del «Sole 24 Ore». Tra i suoi ultimi libri ricordiamo: "Atlante immaginario" (2014), "L’albero di stanze" (2015), "La letteratura al tempo di Adriano Olivetti" (2016), "Gli anni del nostro incanto" (2017) e "Breve storia del mio silenzio" (2019).

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