J.R.R. Tolkien, il linguaggio e la gioia
Autore di un’opera cattolica sì, ma di qualità particolare, lo scrittore esercita il suo gusto filologico nel ricostruire un passato mitologico da frammenti linguistici e narrativi. Lontano dai modelli disneyani e più vicino ai Grimm.
La figura di John Ronald Reuel Tolkien suscita, ancora oggi, due questioni fondamentali. Molti intellettuali non si spiegano il suo successo, visto che niente del suo mondo sembra attrarli. A sua volta, questo successo è talmente vasto da aver dato forma non solo a un genere, ma anche a una serie di sottoculture (i movimenti pacifisti e hippie nei campus universitari americani degli anni Sessanta; i gruppi di scienziati, ingegneri, programmatori; creatori di giochi da tavolo e videogame; ma anche i campi Hobbit in Italia e numerosi gruppi musicali, spesso di genere metal) talmente diverse tra loro da non restituire una facile chiave di lettura – e questo forse spiega perché gli intellettuali facciano fatica ad apprezzare Tolkien.
Può sembrare temerario cercare di affrontare il tema in poche pagine, se si pensa che sono stati pubblicati migliaia di studi accademici sull’argomento. Tenere conto di questa letteratura è pressoché impossibile e d’altra parte interessa soprattutto gli specialisti. Come spiegare, però, il successo mondiale di un libro (Il Signore degli Anelli) che, per numero di copie vendute, è tra i primi dieci di tutti i tempi, insieme peraltro a Lo Hobbit? Ecco, forse, un altro motivo di sospetto per gli intellettuali: come si fa a prendere sul serio un libro che piace a così tanta gente?
Anche Mozart o Shakespeare godono di un successo enorme, ma non c’è lo stesso sospetto nei loro confronti. Forse ad allontanare da Tolkien sono i risvolti teologici della sua scrittura. Ma temi simili non ricorrono anche in Mozart e Shakespeare? E Dante e Dostoevskij? Non serve accostare questi grandi classici allo scrittore inglese, dato che gli intellettuali che li apprezzano hanno bisogno di qualche ragione per ammetterlo tra i letterati. Proviamo allora a ipotizzare la spiegazione di un successo che, per una volta, potrebbe mettere d’accordo critici e pubblico.
Soldato, studioso, narratore
Una differenza sostanziale tra Tolkien e altri autori di letteratura fantastica – che si chiamino Orwell, King, Pynchon o Golding, per limitarci a qualche esempio in lingua inglese – è il background della sua opera. Come scrive Garbowski, Tolkien fu «soldato, studioso, narratore »: l’esperienza della battaglia della Somme, durante la Prima guerra mondiale, lo traumatizzò, lasciando molte tracce nei suoi scritti. Fu anche e soprattutto uno studioso di filologia comparata, con un’attenzione particolare alla dimensione narrativa dei testi che studiava, e un’ampia competenza su una serie di lingue antiche. Questa competenza ne raccomandò l’inclusione tra i 27 collaboratori all’edizione inglese della Bibbia di Gerusalemme, a tutt’oggi considerata una delle migliori traduzioni della Bibbia cattolica: pare che Tolkien si sia dedicato in particolare al libro di Giona.
Il confronto con la natura del male è una, forse la questione al centro della narrativa di Tolkien, che però ha un punto di partenza peculiare. Come egli stesso scrisse in una lettera del 1955, il suo lavoro è «fondamentalmente linguistico nella sua ispirazione»: «Alla base c’è l’invenzione dei linguaggi. Le “storie” furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. Per me, prima viene il nome e poi la storia». Da qui si coglie un substrato che dà una profondità fuori dal comune alle storie che vengono narrate: è un progetto di «estetica linguistica», il cui profondo senso religioso appartiene alla trama stessa della narrazione. In un’altra lettera del 1953 indirizzata a padre Murray, Tolkien definisce la sua opera come «religiosa e cattolica», cosa che gli si è rivelata in modo più chiaro al momento di rivedere la prima stesura de Il Signore degli Anelli.
Un’opera cattolica, dunque, ma di una qualità particolare, nella quale il gusto filologico di ricostruire il passato a partire da frammenti linguistici e narrativi si coniuga con una narrazione mitologica. È una mitologia “cristiana”, non esplicitamente apologetica come quella dell’amico C.S. Lewis, piuttosto costantemente volta a esplorare un nucleo che rimane misterioso. La lettura del Silmarillion – anteriore nello sviluppo della storia rispetto a Il Signore degli Anelli – esplicita ancora di più questa prospettiva, che rifiuta una lettura banalmente allegorica.
La qualità narrativa risulta così particolarmente elevata: prova ne siano non solo quanti sono stati ispirati da questo testo, ma gli imitatori (in primis Terry Brooks del ciclo di Shannara) che hanno reso particolarmente affollato il genere. Nessuno di questi ha però impiegato il proprio tempo a dar forma a un mondo come ha fatto Tolkien: per capire il suo lavoro, è più facile confrontarlo con figure precedenti, come Elias Lönnrot (l’autore del Kalevala) o Goffredo di Monmouth o i fratelli Grimm. Come loro, Tolkien rielabora materiali prodotti da lui e altri preesistenti, cercando di ricostruire un disegno coerente che restituisca una lettura cristiana della realtà: meglio fermarsi qui, prima di farne un emulo di Dante…
Le fiabe o fairy-stories
Nel saggio sulle fiabe (On Fairy-stories), contenuto in Albero e foglia, viene esplicitata la visione di Tolkien: per una fiaba genuina è essenziale che sia presentata come «vera». Questo vale a due livelli: la fiaba deve essere percepita come vera, per così dire coerente, rispetto al suo mondo (Mondo Secondario). Deve essere insomma qualcosa che ci invita a credere, a prendere parte a una vicenda che può essere incredibile al di fuori del mondo in cui è ambientata. D’altro lato, è proprio la realtà, con la sua logica robusta, a rendere possibile la verità della fiaba. La fantasia, insomma, vuole mettere l’immaginazione a servizio della creazione (subcreazione) di un mondo nel quale leggere la verità del nostro mondo reale (Mondo Primario).
Questo coinvolgimento – su cui Tolkien si sofferma in modo analitico – ha un chiaro sapore autobiografico: il suo narrare è una forma di subcreazione, nella quale il mondo che viene narrato deve avere una sua coerenza interna, per permettere al lettore di calarvisi dentro. Non è un’impresa “per bambini”: in effetti l’opera di Tolkien non è pensata per i bambini, come invece avviene per Geronimo Stilton o Winnie the Pooh. La letteratura “per bambini” sembra considerarli degli alieni, non degli uomini che devono completare la loro crescita.
Un elemento altrettanto peculiare è quello secondo cui la fiaba genuina debba avere un lieto fine. Non nel senso hollywoodiano del termine: piuttosto un capovolgimento finale (eucatastrofe), che mostra la speranza di un mondo migliore senza che per questo sia eliminata la sofferenza. Nelle parole di Tolkien: «La gioia della “buona catastrofe” […] non è essenzialmente “escapistica” o “fuggiasca” […] non smentisce l’esistenza […] del dolore o del fallimento: […] smentisce però, nonostante le molte apparenze del contrario, l’universale sconfitta finale, e pertanto è evangelium». È un’esperienza di gioia «pura», una «grazia improvvisa» che svela per un attimo il senso del mondo: in quanto tale, la fiaba è uno strumento di speranza e produce commozione nel lettore. Chiunque abbia letto Il Signore degli Anelli sa di che cosa si parla: i personaggi di Saruman e Denethor sono sconfitti prima di tutto da se stessi, perché non vogliono approfondire il significato delle storie, che invece Gandalf e i suoi amici, Frodo e Bilbo in testa, meditano in continuazione alimentando la propria speranza.
Emerge così un tratto che lega il soldato allo studioso e al narratore: se è vero che la narrazione di Tolkien si rivolge al mistero del male e del suo rapporto con il bene, è altrettanto vero che la forma di questo confronto è un combattimento, in larga misura spirituale. Nelle vicende della Terra di Mezzo si insiste in vario modo sul messaggio: all’origine di ogni azione malvagia sta sempre una corruzione della volontà e dell’intelligenza, un’incapacità a contemplare il mistero della bellezza, il tentativo di mascherare la verità con le menzogne, anche a fin di bene. È un crinale che attraversa non solo il mondo, popolato da creature fantastiche, ma anche i protagonisti principali, continuamente sfidati nel loro cuore a scegliere.
L’avventura che Bilbo vive ne Lo Hobbit e che suo nipote Frodo prosegue ne Il Signore degli Anelli acquista così una valenza paradigmatica: è un cammino volto a uscire da se stessi, dal proprio orticello, per capire più chiaramente il mondo e se stessi. In questo senso (cfr. «Avvenire», 30 agosto 2013) si esprimeva l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio quando, nelMessaggio per la Messa per l’educazione (23 aprile 2008), sottolineava come, accanto a Enea e Ulisse, nei due hobbit ritorni l’immagine dell’uomo chiamato a camminare, a conoscere e vivere il dramma del bene e del male.
Perché allora tirar fuori draghi, nani ed elfi ? Non c’è molta realtà, qui: manca il sesso (come lamentò un recensore, i personaggi di Tolkien sono ragazzi che non diventeranno mai uomini) e non si può prendere sul serio una storia così palesemente inventata. Eppure, come direbbe Tolkien, se il mondo è stato costruito bene, è vero: proprio in questa subcreazione possiamo cogliere la Gloria della creazione: «Il Vangelo non ha abrogato le fiabe, le ha santificate, e ciò vale soprattutto per il “lieto fine”». Guardato da qui, il finale hollywoodiano si mostra per quello che è, una parodia di quel compimento che invece è il punto d’arrivo di una storia ben narrata. Non a caso Tolkien espresse a più riprese la distanza del suo mondo immaginario da quello di Disney: l’eucatastrofe non è un semplice lieto fine, ma un capovolgimento che mostra la possibilità della redenzione (senza peraltro che la fiaba finisca davvero).
La sintesi migliore dell’opera di Tolkien può essere allora cercata nelle righe finali della recensione che W.H. Auden pubblicò su «The New York Times» il 31 ottobre 1954: «Infine, se si deve prendere sul serio un racconto di questo tipo, occorre avere la sensazione che, per quanto i suoi personaggi ed eventi possano essere superficialmente diversi da quelli del mondo in cui viviamo, nondimeno regga lo specchio all’unica natura che conosciamo, la nostra; anche in questo Mr. Tolkien ha avuto un successo eccezionale, e quel che è accaduto nell’anno della Contea 1418 della Terza Era nella Terra di Mezzo è non solo affascinante nel 1954 d.C., ma è anche un avvertimento e un’ispirazione. Nessuna delle storie che ho letto negli ultimi cinque anni mi ha dato più gioia de La Compagnia dell’Anello».
È in questa apertura alla gioia che troviamo la cifra di Tolkien, lo scrittore «affabile ma non socievole» – sono parole sue – che scrisse tutta la vita per sé e per pochi amici e familiari, rimanendo sempre stupito del successo delle sue storie. Forse è un gusto un po’ semplice, non adatto a palati molto raffi nati; eppure le storie che ha costruito per spiegare le parole continuano ad accendere il desiderio.
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Può sembrare temerario cercare di affrontare il tema in poche pagine, se si pensa che sono stati pubblicati migliaia di studi accademici sull’argomento. Tenere conto di questa letteratura è pressoché impossibile e d’altra parte interessa soprattutto gli specialisti. Come spiegare, però, il successo mondiale di un libro (Il Signore degli Anelli) che, per numero di copie vendute, è tra i primi dieci di tutti i tempi, insieme peraltro a Lo Hobbit? Ecco, forse, un altro motivo di sospetto per gli intellettuali: come si fa a prendere sul serio un libro che piace a così tanta gente?
Anche Mozart o Shakespeare godono di un successo enorme, ma non c’è lo stesso sospetto nei loro confronti. Forse ad allontanare da Tolkien sono i risvolti teologici della sua scrittura. Ma temi simili non ricorrono anche in Mozart e Shakespeare? E Dante e Dostoevskij? Non serve accostare questi grandi classici allo scrittore inglese, dato che gli intellettuali che li apprezzano hanno bisogno di qualche ragione per ammetterlo tra i letterati. Proviamo allora a ipotizzare la spiegazione di un successo che, per una volta, potrebbe mettere d’accordo critici e pubblico.
Soldato, studioso, narratore
Una differenza sostanziale tra Tolkien e altri autori di letteratura fantastica – che si chiamino Orwell, King, Pynchon o Golding, per limitarci a qualche esempio in lingua inglese – è il background della sua opera. Come scrive Garbowski, Tolkien fu «soldato, studioso, narratore »: l’esperienza della battaglia della Somme, durante la Prima guerra mondiale, lo traumatizzò, lasciando molte tracce nei suoi scritti. Fu anche e soprattutto uno studioso di filologia comparata, con un’attenzione particolare alla dimensione narrativa dei testi che studiava, e un’ampia competenza su una serie di lingue antiche. Questa competenza ne raccomandò l’inclusione tra i 27 collaboratori all’edizione inglese della Bibbia di Gerusalemme, a tutt’oggi considerata una delle migliori traduzioni della Bibbia cattolica: pare che Tolkien si sia dedicato in particolare al libro di Giona.
Il confronto con la natura del male è una, forse la questione al centro della narrativa di Tolkien, che però ha un punto di partenza peculiare. Come egli stesso scrisse in una lettera del 1955, il suo lavoro è «fondamentalmente linguistico nella sua ispirazione»: «Alla base c’è l’invenzione dei linguaggi. Le “storie” furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. Per me, prima viene il nome e poi la storia». Da qui si coglie un substrato che dà una profondità fuori dal comune alle storie che vengono narrate: è un progetto di «estetica linguistica», il cui profondo senso religioso appartiene alla trama stessa della narrazione. In un’altra lettera del 1953 indirizzata a padre Murray, Tolkien definisce la sua opera come «religiosa e cattolica», cosa che gli si è rivelata in modo più chiaro al momento di rivedere la prima stesura de Il Signore degli Anelli.
Un’opera cattolica, dunque, ma di una qualità particolare, nella quale il gusto filologico di ricostruire il passato a partire da frammenti linguistici e narrativi si coniuga con una narrazione mitologica. È una mitologia “cristiana”, non esplicitamente apologetica come quella dell’amico C.S. Lewis, piuttosto costantemente volta a esplorare un nucleo che rimane misterioso. La lettura del Silmarillion – anteriore nello sviluppo della storia rispetto a Il Signore degli Anelli – esplicita ancora di più questa prospettiva, che rifiuta una lettura banalmente allegorica.
La qualità narrativa risulta così particolarmente elevata: prova ne siano non solo quanti sono stati ispirati da questo testo, ma gli imitatori (in primis Terry Brooks del ciclo di Shannara) che hanno reso particolarmente affollato il genere. Nessuno di questi ha però impiegato il proprio tempo a dar forma a un mondo come ha fatto Tolkien: per capire il suo lavoro, è più facile confrontarlo con figure precedenti, come Elias Lönnrot (l’autore del Kalevala) o Goffredo di Monmouth o i fratelli Grimm. Come loro, Tolkien rielabora materiali prodotti da lui e altri preesistenti, cercando di ricostruire un disegno coerente che restituisca una lettura cristiana della realtà: meglio fermarsi qui, prima di farne un emulo di Dante…
Le fiabe o fairy-stories
Nel saggio sulle fiabe (On Fairy-stories), contenuto in Albero e foglia, viene esplicitata la visione di Tolkien: per una fiaba genuina è essenziale che sia presentata come «vera». Questo vale a due livelli: la fiaba deve essere percepita come vera, per così dire coerente, rispetto al suo mondo (Mondo Secondario). Deve essere insomma qualcosa che ci invita a credere, a prendere parte a una vicenda che può essere incredibile al di fuori del mondo in cui è ambientata. D’altro lato, è proprio la realtà, con la sua logica robusta, a rendere possibile la verità della fiaba. La fantasia, insomma, vuole mettere l’immaginazione a servizio della creazione (subcreazione) di un mondo nel quale leggere la verità del nostro mondo reale (Mondo Primario).
Questo coinvolgimento – su cui Tolkien si sofferma in modo analitico – ha un chiaro sapore autobiografico: il suo narrare è una forma di subcreazione, nella quale il mondo che viene narrato deve avere una sua coerenza interna, per permettere al lettore di calarvisi dentro. Non è un’impresa “per bambini”: in effetti l’opera di Tolkien non è pensata per i bambini, come invece avviene per Geronimo Stilton o Winnie the Pooh. La letteratura “per bambini” sembra considerarli degli alieni, non degli uomini che devono completare la loro crescita.
Un elemento altrettanto peculiare è quello secondo cui la fiaba genuina debba avere un lieto fine. Non nel senso hollywoodiano del termine: piuttosto un capovolgimento finale (eucatastrofe), che mostra la speranza di un mondo migliore senza che per questo sia eliminata la sofferenza. Nelle parole di Tolkien: «La gioia della “buona catastrofe” […] non è essenzialmente “escapistica” o “fuggiasca” […] non smentisce l’esistenza […] del dolore o del fallimento: […] smentisce però, nonostante le molte apparenze del contrario, l’universale sconfitta finale, e pertanto è evangelium». È un’esperienza di gioia «pura», una «grazia improvvisa» che svela per un attimo il senso del mondo: in quanto tale, la fiaba è uno strumento di speranza e produce commozione nel lettore. Chiunque abbia letto Il Signore degli Anelli sa di che cosa si parla: i personaggi di Saruman e Denethor sono sconfitti prima di tutto da se stessi, perché non vogliono approfondire il significato delle storie, che invece Gandalf e i suoi amici, Frodo e Bilbo in testa, meditano in continuazione alimentando la propria speranza.
Emerge così un tratto che lega il soldato allo studioso e al narratore: se è vero che la narrazione di Tolkien si rivolge al mistero del male e del suo rapporto con il bene, è altrettanto vero che la forma di questo confronto è un combattimento, in larga misura spirituale. Nelle vicende della Terra di Mezzo si insiste in vario modo sul messaggio: all’origine di ogni azione malvagia sta sempre una corruzione della volontà e dell’intelligenza, un’incapacità a contemplare il mistero della bellezza, il tentativo di mascherare la verità con le menzogne, anche a fin di bene. È un crinale che attraversa non solo il mondo, popolato da creature fantastiche, ma anche i protagonisti principali, continuamente sfidati nel loro cuore a scegliere.
L’avventura che Bilbo vive ne Lo Hobbit e che suo nipote Frodo prosegue ne Il Signore degli Anelli acquista così una valenza paradigmatica: è un cammino volto a uscire da se stessi, dal proprio orticello, per capire più chiaramente il mondo e se stessi. In questo senso (cfr. «Avvenire», 30 agosto 2013) si esprimeva l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio quando, nelMessaggio per la Messa per l’educazione (23 aprile 2008), sottolineava come, accanto a Enea e Ulisse, nei due hobbit ritorni l’immagine dell’uomo chiamato a camminare, a conoscere e vivere il dramma del bene e del male.
Perché allora tirar fuori draghi, nani ed elfi ? Non c’è molta realtà, qui: manca il sesso (come lamentò un recensore, i personaggi di Tolkien sono ragazzi che non diventeranno mai uomini) e non si può prendere sul serio una storia così palesemente inventata. Eppure, come direbbe Tolkien, se il mondo è stato costruito bene, è vero: proprio in questa subcreazione possiamo cogliere la Gloria della creazione: «Il Vangelo non ha abrogato le fiabe, le ha santificate, e ciò vale soprattutto per il “lieto fine”». Guardato da qui, il finale hollywoodiano si mostra per quello che è, una parodia di quel compimento che invece è il punto d’arrivo di una storia ben narrata. Non a caso Tolkien espresse a più riprese la distanza del suo mondo immaginario da quello di Disney: l’eucatastrofe non è un semplice lieto fine, ma un capovolgimento che mostra la possibilità della redenzione (senza peraltro che la fiaba finisca davvero).
La sintesi migliore dell’opera di Tolkien può essere allora cercata nelle righe finali della recensione che W.H. Auden pubblicò su «The New York Times» il 31 ottobre 1954: «Infine, se si deve prendere sul serio un racconto di questo tipo, occorre avere la sensazione che, per quanto i suoi personaggi ed eventi possano essere superficialmente diversi da quelli del mondo in cui viviamo, nondimeno regga lo specchio all’unica natura che conosciamo, la nostra; anche in questo Mr. Tolkien ha avuto un successo eccezionale, e quel che è accaduto nell’anno della Contea 1418 della Terza Era nella Terra di Mezzo è non solo affascinante nel 1954 d.C., ma è anche un avvertimento e un’ispirazione. Nessuna delle storie che ho letto negli ultimi cinque anni mi ha dato più gioia de La Compagnia dell’Anello».
È in questa apertura alla gioia che troviamo la cifra di Tolkien, lo scrittore «affabile ma non socievole» – sono parole sue – che scrisse tutta la vita per sé e per pochi amici e familiari, rimanendo sempre stupito del successo delle sue storie. Forse è un gusto un po’ semplice, non adatto a palati molto raffi nati; eppure le storie che ha costruito per spiegare le parole continuano ad accendere il desiderio.
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Roberto Presilla
Roberto Presilla è docente di Filosofia contemporanea presso la Pontificia Università Gregoriana ed è direttore del Forum delle Associazioni Familiari. Si occupa di questioni legate al significato e alla formazione della mentalità. Tra le sue pubblicazioni: Significato e conoscenza. Un percorso di filosofia analitica (2012). È membro della redazione della rivista dell'Università Cattolica "Vita e Pensiero".
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