10x10: INVITO A VIAGGIARE

Dieci professori dell'Università Cattolica indicano luoghi del cuore da visitare alla fine della pandemia. Dal Mediterraneo al Latinoamerica, passando per la carta, la musica, i
santuari, la cucina. Buona lettura e buon viaggio!
di Vittorio Emanuele Parsi
Il primo posto in cui vorrei andare è Beirut. È stato il posto in cui sono continuamente andato per quasi 15 anni e mi manca moltissimo. Non è stata solo la pandemia a impedirmi di tornarci negli ultimi tempi. E resta una meta complicata. Mi manca il canto dei muezzin e il tappeto di sottofondo dei clacson dei “service”, il mannoush allo zatar... Ma soprattutto mi mancano i libanesi, con la loro caparbia resistenza, alle minacce interne e a quelle esterne. Si è parlato molto di resilienza durante la pandemia. Beh, con il loro rosario di disgrazie, direi che i libanesi avrebbero molto da insegnare a tutti noi circa il concetto di resilienza. Potrebbero tenere un master sulla resilienza. Persino in assenza di speranza che le cose possano mai cambiare per davvero: la resistenza disperata. L’altro giorno ho scoperto per caso che una nuova vicina, una signora non troppo in salute che incontravo di tanto in tanto per le scale a Milano, è libanese e ha avuto la sua casa distrutta dall’esplosione del porto, lo scorso anno. Il silos che ha distrutto una porzione importante del centro di Beirut era vicino al molo dove attraccavano le navi di UNIFIL e ci sono passato decine di volte, quando dovevo andare da Naqoura a Beirut. L’avevo sentita parlare, la signora, con quell’arabo frammisto di parole francesi e inglesi (e persino italiane) che si sente solo a Beirut. Non vede il suo nipotino da quasi due anni. E ha quello sguardo malinconico, un po’ triste e un po’ ironico, che solo i libanesi riescono ad esprimere.
Non bastavano la devastazione dell’invasione israeliana del 2006, la guerra civile siriana e le sue conseguenze, la cronica litigiosità e inconcludenza del sistema politico settario, la crisi endemica della raccolta della spazzatura che fa sembrare Roma una linda cittadina svizzera: pure la pandemia e poi la devastante esplosione. In tutto questo disastro, con un’economia in bancarotta, una crisi politica che non si risolve, il Libano ospita circa un milione e mezzo di profughi siriani, su una popolazione di circa sei milioni di persone (oltre a un mezzo milione mal contato di palestinesi). E in Italia, e in Europa, si grida “all’invasione estiva”. E l’Unione regala barcate di soldi a Erdogan, perché faccia il lavoro sporco per noi. Ma non credo che da quassù arrivino troppi finanziamenti per contribuire alla ricostruzione di un Paese che, silenziosamente, da tanto tempo, lotta per arrivare a domani. Dovremmo imparare dai libanesi.
Potessi tornare ora, so bene che non ritroverei “la mia Beirut” (“Le Beirut”, cantata in maniera struggente da Feiruz): ma ritroverei sempre i libanesi e la loro forza, la loro indomita forza. E comunque sarebbe “casa”.
Tornare a Istanbul
di Gianpaolo Barbetta
La pandemia ci ha tenuto a lungo chiusi in casa. Ci sono certamente mancati, più di tutto, i volti degli amici e dei familiari. Ma ci sono mancati anche i viaggi e le scoperte, così come i “luoghi del cuore” che non abbiamo più potuto visitare. Uno dei miei luoghi del cuore è Istanbul.
Istanbul è una delle principali cerniere tra oriente e occidente, collocata in una zona in cui i due mondi faticano particolarmente a comprendersi e riconoscersi.
È stata la Bisanzio dei greci, poi la Costantinopoli dei greci che chiamavano se stessi romani, e infine la Istanbul capitale degli ottomani che hanno governato buona parte del Mediterraneo, dalle porte di Vienna fino ad Algeri. La città conserva tracce vivissime di questa stratificazione di culture e civiltà, così come mostra i segni della vivacità moderna, con un agglomerato urbano che negli ultimi 20 anni ha quasi raddoppiato la propria popolazione, superando i 15 milioni di abitanti. Questa miscela di antico e moderno è stata resa molto godibile (almeno fino all’ultima mia visita) dal buon cibo e da un clima umano molto accogliente e tollerante.
Ora che cominciamo a contenere l’effetto della pandemia e che è di nuovo possibile viaggiare, sarebbe bello tornare a Istanbul. A malincuore non lo farò, almeno fino a quando il “dittatore di cui si ha bisogno” non cederà il passo a seguito di un voto autenticamente democratico.
Da Kos a Cadiz
di Silvia Barbantani
Propongo due località che ho visitato poco prima del 2020, e che mi sono rimaste nel cuore. Alle estremità opposte del Mediterraneo spiccano, tra molte, due destinazioni quasi invisibili sulla carta geografica, ma ricchissime di suggestioni storiche, artistiche e culturali, nonché apprezzabili per l’ospitalità degli abitanti. Densa di vestigia antiche, oltre che di splendide bellezze naturali, l’isola di Kos, affacciata sulla costa turca di fronte a Bodrum (l’antica Alicarnasso), è stata per secoli punto d’incontro di popoli, avamposto militare, commerciale e culturale. Si protende sul mare presso il porto la fortezza di Neratzia, costruita dagli Ospitalieri e oggi gremita di antiche iscrizioni e di gatti; è stata scelta dal regista Werner Herzog come set per il surreale Lebenszeichen, in cui ricorda indirettamente l’attività del nonno archeologo in quel sito. La piccola Kos ha dato i natali ai “padri” di due importanti discipline: il ricordo di Ippocrate, fondatore della medicina su basi razionali, sopravvive nel complesso monumentale dell’Asklepieion e, in forma più leggendaria, nell’imponente platano che estende la sua ombra sulla piazza principale della città. Ad un altro figlio illustre dell’isola, il primo poeta-filologo, Filita, dedicò una statua (anch’essa, stando a fonti coeve, all’ombra di un platano) il suo più impegnativo allievo, quel Tolemeo II Filadelfo che sviluppò il più grande centro culturale del Mediterraneo ellenistico, la Biblioteca di Alessandria.
Se il viaggiatore desidera emulare, nell’ambizioso percorso, l’eroe Eracle cui si rendeva culto a Kos, può idealmente circumnavigare il Mediterraneo e raggiungere un altro crocevia di culture in pace e in guerra, una luminosa città-isola legata alla terraferma da una sottilissima lingua di terra: Cadice, la prima colonia fenicia in Europa, poco sopra lo Stretto di Gibilterra. Gli occhi stanchi di chi per mesi è stato costretto a fissare la luce artificiale di uno schermo a pochi centimetri potranno affacciarsi liberi sull’Oceano (ove è strategicamente posizionata anche l’Università), proiettando lo sguardo e il desiderio di ulteriori viaggi, incontri e conoscenze oltre le colonne d’Eracle.
Cesena, alla Biblioteca Malatestiana
di Edoardo Barbieri
Una proposta per l’estate… Chi mi conosce un po’ penserà che mi farò avanti con qualche passeggiata in Trentino o in qualche borgo toscano, oppure con una città d’arte in Belgio o un remoto paesino in Slovacchia, o ancora con l’amata Terra Santa… Invece no, vi proporrò Cesena. Sì proprio la cittadina dell’entroterra romagnolo, a un passo dagli Appennini ma anche dal mare. Perché lì si trova una delle più affascinanti biblioteche italiane, la Malatestiana antica (per distinguerla dalla moderna, che è la biblioteca di pubblica lettura della città, ma sono di fatto l’una dentro l’altra). Proprio alla metà del Quattrocento, Malatesta Novello, signore della città, decide di edificare all’interno del convento di San Francesco una biblioteca secondo i dettami della nuova concezione umanistica. Ne nasce un gioiello architettonico, con le tre navate separate da eleganti colonne. Un vero scrigno per contenere una eccezionale dotazione libraria costituita da centinaia di codici manoscritti ancora incatenati ai banchi per la consultazione.
Ma alla visita alla biblioteca (ci si deve prenotare) questa estate si può unire un’esperienza speciale, quella della mostra Per Dante Alighieri: testi, commenti, imitazioni e difese allestita nell’occasione del settimo centenario della morte del poeta. Si tratta di un intelligente percorso che, valorizzando il patrimonio della biblioteca, illustra come la vita dei testi danteschi sia passata dentro la forma delle loro riproduzioni e dell’uso che dei testi si è fatto. Quasi a glossare l’osservazione di Umberto Eco, secondo il quale ogni testo si muove nell’orizzonte non solo della trasmissione del suo messaggio al proprio destinatario, ma della comunicazione di un vero e proprio significato.
Fabriano, dove è nata la carta dal futuro sostenibile
di Roberto Cicala
«Come si sono sommate sulla tua carta tante bellezze?» è la domanda di Neruda che sembra fatta apposta per una cartina turistica aperta per scoprire luoghi carichi di fascino. E se quest’estate italiana fosse proprio all’insegna della carta, l’elemento più sostenibile, antico e innovativo? Allora l’invito è raggiungere Fabriano, ai piedi dell’Appennino marchigiano, tra il verde dei boschi e l’azzurro dell’acqua che hanno creato il mix ideale per diventare nel Medioevo la capitale della produzione della carta, crocevia di itinerari spirituali oggi diventati trekking con tappe architettoniche in cui non manca la buona cucina. Ma oltre a salame pepato, fregantò di verdure e biscotti di mosto si sentono buoni odori storici anche nell’ex convento dei Domenicani con il Museo della carta, nata 700 anni fa e basata più sugli stracci che sulla cellulosa. Qui sono state inventate la filigrana antitruffa, la carta velina simile alla pergamena, le risme da 500 fogli. Se andate, fate il laboratorio per creare la carta a mano e scoprire che è un elemento mai da sprecare (come insegna Tolkien che ha scritto Il Signore degli Anelli anche sul retro dei compiti in classe) e usata nel futuro (alla Pixar si fanno 50mila disegni a mano su carta per film come Nemo).
E di fronte all’espansione digitale e liquida (sull’e-paper), la carta è uno degli elementi più ecosostenibili, ricavata anche da alghe, mais o frutta. Però resta sempre fondamentale l’acqua, che regna intorno e sotto Fabriano. A un quarto d’ora di auto le grotte di Frasassi sono un’emozione di colori e forme, con la Sala dell’Infinito (siamo a un’ora da Recanati). In superficie questa terra di Gentile da Fabriano (naturalmente ricca di arte e musei) è segnata dalla storia, tra borghi, castelli, tenute di cavalli, giardini fioriti, ponti e abbazie, come il monastero di Fonte Avellana di Pier Damiani in vista del Monte Cucco che ispirò l’esule Dante per il Paradiso. Qui sono stati scritte, copiate e miniate opere indimenticabili, i cui fogli sembrano suggerire a Neruda l’idea che «ogni pagina scorre come un destriero che cerca cose lontane, fiori dimenticati».
Si, Viaggiare (alla ricerca di concerti)
di Gianni Sibilla
Quest’estate torna finalmente la musica dal vivo, ma è una ripresa solo parziale. Per i grandi eventi, gli stadi, i festival bisognerà attendere un altro anno, fino al 2022. Ma si può comunque viaggiare per l’Italia in cerca di concerti: ci saranno molti artisti in tour, con spettacoli a capienza limitata per assistere comunque in sicurezza.
Non c’è un’unica destinazione, ma molte tappe. La partenza è Milano, a poca distanza dall’Università: al cortile del Castello si svolge l’Estate Sforzesca, con un bel cartellone tra pop, rock e altri generi. Non è l’unico luogo della città, ovviamente: alle porte ci sono il Carroponte (a Sesto San Giovanni) e il Magnolia a Segrate, tra gli altri. E come Milano, le altre grandi città hanno belle rassegne: Torino (a fine agosto c’è il Todays, uno dei pochi festival con nomi internazionali del 2021), Roma, Genova e Bologna. Quest’ultima, oltre alla musica suonata ha anche un nuovo spazio per la musica raccontata che vale la pena visitare: a Salaborsa, in pieno centro, ha appena aperto la Sala Della Musica, una permanente sulla storia del pop e del rock in città (disclaimer: sono di parte, essendone il curatore e direttore scientifico). Per il resto, c’è l’imbarazzo della scelta, in diverse località, da Pistoia all'Anfiteatro del Vittoriale sul Lago di Garda..
Personalmente, le mie destinazioni musicali dell'estate saranno tre: Alba, che il 10 luglio sarà una delle tappe di Patti Smith, tra i pochi nomi internazionali a suonare in Italia. Il Lago Maggiore, dove allo Stresa Festival ci saranno, tra gli altri, i pianisti Uri Caine e Stefano Bollani. E l’Arena di Verona, l’unica location che ha una capienza allargata, fino a 6000 persone. Ci andrò il 19 settembre per Diodato, uno dei migliori cantautori di questi anni, e negli ultimi anni più volte ospite della nostra università e del Master in Comunicazione Musicale. Non vedo l’ora di rivederlo dal vivo.
Al santuario di Maria Luggau
di Giovanni Gobber
Per fare un po’ di moto e per salvarsi l’anima può essere utile un bel pellegrinaggio al Santuario di Maria Luggau. Andiamo a Sappada, che in tedesco è Plodn, dato che vi si parla un dialetto della Carinzia. Siamo nella Carnia friulana, ai confini con il Bellunese. Raggiungiamo la località di Cima Sappada e poi, a piedi, saliamo alle sorgenti del Piave e al rifugio Calvi (oltre i duemila metri di altitudine). Continuiamo ed entriamo in Carinzia, Austria. Cammina cammina, scendiamo e arriviamo a Maria Luggau, nella valle della Gail. Lì c’è un santuario caro alla gente di Sappada. Nella terza domenica di settembre, da oltre duecento anni, fanno la Plodar Wallfahrt, il pellegrinaggio dei sappadini, cui partecipano anche furlani e tedeschi della Carnia. Partono all’alba e arrivano dopo circa nove ore di buon passo.
Preferite ammirare i monti viaggiando comodi in auto? Allora fate come me. Andate a Tolmezzo e fermatevi in uno dei tanti begli alberghi del principale borgo carnico. Al mattino, salite a Paluzza, fino a Timau, che nel locale dialetto tedesco è Tischlbong. Prendete la strada per il passo di Monte Croce Carnico (in ted. Plöckenpass), con i tornanti in galleria; a 1360 metri è il confine con la Carinzia. Scendete a Mauthen, antico borgo tedesco e sloveno. Fermatevi a fare benzina (costa poco). Passate il ponte sul Gail e arrivate a Kötschach, che fa un comune unico con Mauthen. Prendete a sinistra, lungo l’alta valle della Gail, che per un pezzo si chiama Lesachtal; in un’ora e mezza siete a Maria Luggau, dalla Madonna che aspetta. Lasciato il santuario, continuate verso occidente, così entrando nel Tirolo Orientale. La valle torna a chiamarsi con il nome del fiume Gail. Seguite la strada in discesa che vi porta a Sillian e da lì entrate nel Tirolo meridionale o Alto Adige. In un attimo siete a Dobbiaco e da lì potete continuare verso Brunico e arrivare a Bressanone; oppure, fate la strada di Alemagna e andate a Cortina.
Lione è una città straordinaria
di Paolo Molinari
Lione è una città straordinaria, al contempo elegante e classica, molto moderna e vitale. Situata lungo un importante crocevia commerciale europeo tra Nord e Sud e tra Est e Ovest, il capoluogo della regione Auvergne-Rhône-Alpes è una città cosmopolita e anche una delle capitali mondiali della gastronomia.
Poter tornare a visitare questa metropoli sarà l’occasione per verificare sul campo, unendo flânerie e visite guidate da amici e colleghi del posto, come Lione sta affrontando una serie di sfide che interrogano molte città del mondo più sviluppato: come si riconfigurano gli spazi pubblici in seguito alla pandemia? Le politiche di transizione energetica diventano un’occasione di rinnovamento delle infrastrutture urbane, le quali consentono alle città di continuare a essere “ospitali” e non solo luoghi di produzione e consumo? Quali contraccolpi sta subendo, se ne subisce, la città dei grandi investimenti immobiliari che ha completamente trasformato l’area dismessa della Confluence (alla confluenza tra l’ampio Rodano e la turbolenta Saona) in un quartiere di impronta internazionale, con tanto di centri commerciali e culturali, poli museali, marina, ecc.? Al contempo come procedono e quale nuova forma assumono gli interventi di rigenerazione urbana nei quartieri più periferici, nelle banlieue periodicamente attraversate da episodi di tensione innescati da scontri etnici e religiosi e, ancor di più, da marginalità ed esclusione sociale? Perché, riprendendo un’espressione utilizzata da due noti geografi britannici, Ash Amin e Nigel Thrift, confinati in casa propria è impossibile comprendere come le città continuino a “fare il mondo”…
In Brasile per educare
di Pier Cesare Rivoltella
Ad aprile dello scorso anno, in pieno lockdown, avrei dovuto essere in Brasile. Viaggio di istruzione con una trentina di studentesse di Scienze della Formazione Primaria: Florianopolis, le scuole delle comunità Guaranì, Rio, San Paolo all’istituto Paulo Freire. L’anno prima avevamo fatto visita alla Shinwa University, a Kobe, con cui il nostro Corso di Studi è gemellato. Come dire: l’ordine e la creatività, due culture dell’infanzia molto diverse, due tradizioni di scuola e due modelli di professionalità docente agli antipodi.
Dal 2004 – quando a Rio si celebrò la Cupla Mundial sobre Jovens, Mìdia e crianças – non è mai passato un anno che non sia tornato in Brasile. Un Paese che per chi si occupa di educazione, produzione culturale e Media Education, è uno straordinario laboratorio etnografico e di innovazione. Ma anche uno spazio creativo in cui si incontrano e si contaminano la cultura (i sapori, gli sguardi, le tradizioni) portoghese e quella africana, così come quelle di tutte le comunità che qui sono migrate nei secoli, compresa quella italiana. I brasiliani amano dire che “Deus è brasileiro” proprio a rappresentare la somma di tutte le diversità, l’unità e la sintesi di tutte le cose.
L’idea è ripianificare il viaggio, riprenderci quel che la pandemia ci ha tolto, matar a saudade che ti prende quando manchi. Come canta Paulinho da Viola sulla musica di una celebre canzone di Cartola: “Finda a tempestade, o sol nascerà, finda esta saudade ei de ter outro alguém para amar”; finita la tempesta uscirà il sole, finita questa nostalgia devo avere qualcun altro da amare.
Vacanza in Perù
di Nando Pagnoncelli
Durante i lunghi mesi della clausura, spesso mi è capitato di riguardare le fotografie dei miei viaggi degli ultimi anni, per rinfrescare la memoria, ricordando momenti piacevoli, e per immaginare progetti futuri. Se potessi mi piacerebbe ritornare in Perù, dove ho avuto la fortuna di trascorrere con la famiglia una delle vacanze più belle della mia vita che decidemmo quasi per caso. Nel gennaio del 2007 accettai di buon grado la proposta di Angelo Giornelli (direttore di Educatt) e Massimo Massagli (all’epoca direttore della funzione di supporto del Nucleo di Valutazione della Cattolica) di tenere una lezione a un corso di formazione per docenti universitari peruviani, nell’ambito della collaborazione tra il nostro ateneo e l’Università Cattolica Sedes Sapientiae di Lima, diretta da Giambattista Bolis, un compagno di liceo che avevo perso di vista. Il mondo è davvero piccolo, pensai. Giambattista mi raccontò con grande entusiasmo la bellezza del Perù e mi suggerì di ritornare in estate in vacanza con la mia famiglia, offrendosi di organizzare il viaggio e un articolato itinerario.
Fu così che potei trascorrere quasi un mese in un paese stupendo visitando luoghi di straordinaria bellezza, molto diversi tra loro ma accomunati da un grande fascino, sia che si trattasse delle mete più conosciute e frequentate da turisti, sia di luoghi sperduti e poco noti, uno dei quali mi rimasto nel cuore: le rovine di Sillustani che si affacciano sul lago Umayo, vicino a Puno, a 4.000 metri di altitudine. È un luogo stupendo con un panorama che si perde a vista d’occhio. Quando ci andammo il cielo e il lago erano di un azzurro quasi irreale. Eravamo completamente soli, con la guida che ci accompagnava. Qua e là spuntavano lama, alpaca e guanachi, alla ricerca di erba da brucare. Fu un momento molto particolare, la prima e unica volta nella mia vita in cui mi sono sentito immerso nel silenzio assoluto. Quando usciremo dalla pandemia è lì che vorrei ritornare, per rivivere quel senso di pace che non ho più avuto l’occasione di sentire con quell’intensità e di cui sento spesso il bisogno.
A cura della redazione
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