ASPETTANDO GLI OSCAR 2020

Fra consueti lustrini e abiti glamour, e inedite concessioni agli imperativi della political correctness, Hollywood porta sul red carpet più importante dell’anno la lotta di classe ai tempi del capitalismo digitale. Lo fa con due film molto diversi, ma altrettanto straordinari e radicali, che sono entrati nella lista delle nomination per Best Picture nella prossima edizione degli Academy Awards, più semplicemente la notte degli Oscar (che si terrà al Dolby Theater di Los Angeles la prossima domenica 9 febbraio): si tratta di Joker di Todd Phillips e di Parasite di Bong Joon-ho.
Come ormai accade da qualche anno, la cerimonia è preceduta – e sarà presumibilmente seguita – da una serie di polemiche relative all’incapacità del sistema di voto impiegato dall’Academy di dare voce alla diversità e all’inclusione: “con un’Academy composta principalmente da uomini bianchi, cosa potevamo aspettarci?” si è domandata su Variety l’attivista April Reign, creatrice dell’hashtag #OscarSoWhite nel 2015, commentando le nomination del 2020, in particolare i nove film candidati al premio più importante, che “rappresentano il punto di vista della maggioranze dei membri maschi e bianchi dell’Academy”.
Se la questione dell’ “inclusività” riguarda più l’intera industria del cinema che la cerimonia degli Oscar (e l’Academy, in verità,ha fatto sforzi importanti per far crescere, fra i propri votanti, le donne e le persone di colore), la polemica rischia di oscurare il dato più rilevante: i film nominati nelle diverse categorie, e in particolare quelli presenti nella lista di maggior pregio, rappresentano egregiamente (con qualche inevitabile dimenticanza) uno spaccato della migliore produzione cinematografica del 2019, un’annata che è tornata a essere decisamente ricca ed entusiasmante. E, almeno nei casi di Joker e Parasite – i due film più innovativi in elenco – in gioco c’è proprio, un po’ ironicamente, il tema dell’esclusione sociale, in racconti duri e potenti che toccano alcune corde altamente sensibili dell’immaginario contemporaneo.
Ci sono due sequenze molto impressionanti e iconiche nei film di Phillips e Bong Joon-ho. Il primo – una produzione della Warner Bros., costata poco più di 50 milioni di dollari, ma in grado raccogliere più di un miliardo di dollari al botteghino, spia di un’operazione che ha centrato nel segno non solo a livello commerciale, ma nella capacità di parlare a un’audience globale vastissima e variegata – è un “origin story” – il racconto di una genesi – dell’omonimo personaggio dei fumetti della DC Comics, un clown psicopatico disegnato per la prima volta nel 1940 come antagonista dell’eroe Batman. Il film di Todd Phillips ne ricostruisce appunto la genesi: come Arthur Fleck – un John Doe qualsiasi, ovvero un “uomo qualunque” – si trasforma nel ghignante e malvagio Joker. Una delle scene più forti del film arriva verso la conclusione: dopo aver ucciso in diretta il presentatore televisivo Murray Franklin (Robert De Niro), accusando lui e il miliardario candidato a sindaco della città Thomas Wayne di essere i veri responsabili di ciò che è diventato (i media, la politica: insomma le élite), Joker finisce per aizzare una folla inferocita di manifestanti che, indossando una maschera da clown simile alla sua, mette a ferro e fuoco la città. In un percorso circolare che va dalla realtà all’immaginario e torna alla realtà, lo scorso gennaio i pompieri parigini hanno manifestato per le strade della capitale francese indossando maschere da Joker, e scontrandosi violentemente con la polizia (e altri Joker si sono visti in altre zone calde del mondo, come Hong Kong).
La seconda sequenza potente è quella che si colloca, invece, all’inizio del film di Bong Joon-ho: Ki-woo – protagonista della storia – vive in uno squallido appartamento che si trova sotto il livello della strada assieme alla sua famiglia sottoproletaria, composta dai genitori e dalla sorella. Quando al ragazzo viene proposto un lavoro da insegnante presso una ricca famiglia che vive in una scintillante villa dal lusso minimalista e altamente ricercato, l’intera famiglia riesce a “infiltrarsi” nella casa, sostituendo con una serie di trucchi il personale di servizio. Il film – che è il primo lavoro sud-coreano a correre per gli Oscar dopo la vittoria della Palma d’Oro a Cannes, con un incasso al botteghino che ha superato i 150 milioni di dollari – è una commedia nera, estremamente cruda e amara, che finisce per trasformarsi in tragedia (analogamente a Joker, nel quale riso e pianto sembrano intercambiabili sulla maschera triste del clown). Una delle sequenze iniziali mostra l’arrivo di un addetto alla disinfestazione che spruzza per le strade della città del veleno per blatte: anziché chiudere le finestre che danno proprio sulla via, papà Kim Ki-taek esorta la famiglia a lasciare tutto spalancato: “così avremo lo sterminio gratis”.
Nonostante i due film rappresentino delle realtà ben identificabili – una Gotham City che assomiglia da vicino alla New York sporca e pericolosa, infestata da ratti e immondizia, dei primi anni Ottanta, filtrata dallo sguardo dei più noti film di Martin Scorsese, come Taxi Driver o Re per una notte, cui Phillips si ispira citandoli; e i quartieri alti e bassi di Seul – colpisce la capacità di entrambi di rappresentare tematiche e immaginari decisamente più universali e globali (e il successo, su scala mondiale, ne è segnale). Ma i parallelismi non finiscono certo qui: né i personaggi creati da Bong Joon-ho né Joker possono essere semplicisticamente identificati come eroi negativi o classici enti-eroi. È difficile qui tracciare delle linee nette fra il Bene e il Male, e da questo punto di vista i due film sono tutt’altro che rassicuranti. Ma il tema centrale – quello di una lotta di classe che coinvolge individui anonimi, esclusi, estromessi dai vantaggi del progresso, privi di prospettive, assimilabili visivamente a parassiti che cercano espedienti per sopravvivere a una società indifferente o violenta – si risolve in maniera tragica, nell’assenza di una direzione o una qualche via di fuga. In Parasite la lotta per la sopravvivenza nei bassifondi – o letteralmente sottoterra – evolve in una lotta “orizzontale” e cruenta con altri diseredati altrettanto privi di prospettive, abituatisi a “vite nel sottosuolo”. In Joker – che sa cogliere lo spirito del tempo andando alle sue origini, quegli anni Ottanta nei quali la dimensione collettiva cede definitivamente il passo all’individuo – la manifestazione incendiaria che chiude il film sembra essa stessa priva di qualunque idea o prospettiva, che non sia l’espressione di una rabbia anonima, violenta, puramente contingente. Una lotta di classe figlia dunque di una società altrettanto cruda e violenta, che strappa ogni possibilità di riso (nel film di Phillips la scritta “Non dimenticarti di sorridere” si trasforma più semplicemente in “Non sorridere”), che trasforma l’individuo solo in uno psicopatico o in un parassita. Una lotta di classe senza direzione né speranze.
P.S. Gli altri titoli nominati nella categoria “Miglior film” sono il kolossal storico 1917 di Sam Mendes; il lunghissimo auto-omaggio al proprio cinema The Irishman di Martin Scorsese; la brillante e toccante satira sul nazismo (e su ogni ideologia totalitaria) JoJo Rabbit di Taika Waititi; il classico, struggente dramma Marriage Story di Noah Baumbach; la nostalgica, divertita ma anche matura favola sulla fabbrica del cinema e sul suo mondo Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino; l’adattamento di Little Woman di Greta Gerwig (unica voce femminile); il bio-sportivo Ford v Ferrari di James Mangold. Non ci sono nomi né film italiani fra i candidati perché l’ottimo Il traditore di Marco Bellocchio non è, alla fine, riuscito a entrare nella short list della migliore produzione internazionale.
Massimo Scaglioni
Su VP Plus, il quindicinale online della rivista Vita e Pensiero, ha pubblicato gli articoli Aspettando gli Oscar 2020, Sanremo decostruito (da Sanremo), Nuovo Cinema Netflix, La religione (e l'Italia) come "brand".
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