CHE COSA SCRIVEREMO DOPO IL COVID

ESORCIZZARE IL DRAMMA, O DIMENTICARE
Prima ancora di domandarci cosa scriveremo dopo la fine di questa pandemia, dovremmo puntualizzare quali siano le ragioni per le quali continuare a raccontare. La prima che mi viene in mente è quella che obbedisce a uno scopo terapeutico. La scrittura è una forma di elaborazione della paura, risponde dunque al fondamentale processo di liberazione. Se questo poi significherà legittimare il bisogno della dimenticanza (cioè aiuterà a cancellare i segni tragici di quest’ultimo anno) è un problema che ci porremo più avanti dal momento che affonda in un sostrato etico: fino a che punto sarà giusto contribuire a quel processo di rimozione del passato che appare lo spettro di “un tempo senza storia”, il nostro appunto, quello anche prima della pandemia, secondo ciò che dichiara il titolo omonimo del pamphlet di Adriano Prosperi (Einaudi 2021, p. 121, euro 13).
Per il momento fermiamoci all’idea di metabolizzare narrativamente l’evento ancora in corso. Banalmente questa esigenza permette di rispondere a entrambe le domande: il tema pandemico diventerà argomento dominante nella misura in cui esso risponderà all’obiettivo di esorcizzare il dramma. Potremmo aspettarci una serie di libri, tra i più vari dal punto di vista del genere, soprattutto romanzi distopici, incentrati su alterazioni genetiche prodotte da virus naturali o artificiali, su complotti militari, su pestilenze apocalittiche. Questo sarebbe forse lo sbaglio più grossolano che il mercato editoriale si troverebbe costretto a registrare: un errore che, da una parte, renderebbe saturo il tema e, dall’altra, poco aiuterebbe a rimuoverlo, anzi indurrebbe a trattarlo nei suoi aspetti più morbosi e cronachistici, privi di un qualsiasi slancio etico.
Non è escluso ipotizzare un atteggiamento consequenziale al processo di rimozione: cancellare tutto, come se un buco nero si fosse insinuato nella memoria collettiva per sottrarre materia. Anche in questo caso dobbiamo ritornare alle pagine del saggio di Prosperi in cui lo studioso suggerisce un’idea originale di storiografia: quella di una grande macchina per dimenticare, quasi non fosse accaduto niente di anomalo in questo anno e l’umanità si fosse improvvisamente svegliata da un sonno che per puro incidente ha avuto le fattezze di un incubo. Ammesso che ciò sia un comportamento attendibile, saremmo tutti vittime di una generale dimenticanza, ma anche questo sarebbe di poco aiuto.
L'EPICA/ETICA DELLA LETTERATURA
Io credo sia un bene narrare di epidemie, ma occorre farlo a distanza, com’è stato per le opere di Boccaccio, Manzoni, Camus, García Márquez. Credo cioè sia necessario quel processo di scrematura che tende a maturare le condizioni per cui solo che ciò che resiste al tempo ottiene il passaporto della narrabilità ed è, questo, lo stesso principio di salvezza: ciò che resiste all’usura, si salva. Scrivere, dunque, otterrebbe l’effetto dell’epica. Nella grande contesa tra oblio e memoria quel che rimane ha vinto contro le avversità, ma non è un qualcosa abbarbicato al qui e ora, al contrario è frutto di un processo di dilatazione. Che, a osservare bene, è venuto a mancare negli ultimi decenni.
Ammesso che un rapporto sia determinabile tra epidemia e narratologia (ammesso che la maniera di impostare storie possa avere legami con esperienze di virus e contagi) penso che le cause di quanto stiamo vivendo in quest’anno vadano cercate in quel lontano rifiuto che sin dagli anni Ottanta (dall’insorgere cioè della maniera minimalista) avrebbe condotto le maggiori letterature occidentali a perifericizzare l’epica a vantaggio della cronaca, ad abbandonare il racconto del tempo lungo preferendogli quello del tempo breve, nei suoi caratteri più quotidiani e ripetitivi. Sembrerebbe improprio evocare questo cambio di paradigma tra i moventi dell’esplosione pandemica e, priva di adeguata contestualizzazione, l’affermazione si colorerebbe anche di paradossi.
Ma se assumessimo il minimalismo come specchio di una deriva (che ha avuto la sua influenza sul terreno post-ideologico, che ha invitato al disimpegno politico per obbedire alle formule della leggerezza e dell’edonismo), allora forse il collegamento non apparirà più così peregrino ed eccentrico.
Forse l’umanità post-covid avrà bisogno di ripensare sé stessa non tanto in nome di una strategia restaurativa, quanto per riallinearsi ai parametri di un’epica/etica entrambe smarrite dentro i labirinti della virtualità, della globalizzazione, della cosiddetta “cultura orizzontale”. Mi auguro che questo recupero possa avvenire in tempi rapidi e che faccia giustizia di tante false idolatrie a cui, negli ultimi decenni, molta letteratura ha obbedito.
Giuseppe Lupo
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