CHI DIFENDE I CURDI?

CHI DIFENDE I CURDI?

19.10.2019
di Riccardo Redaelli

Avrà forse ragione l’ormai bizzarrissimo presidente Trump a rimarcare come i curdi non ci abbiano aiutato nello sbarco di Normandia. Ma è dubbio che ciò giustifichi il nuovo, ennesimo tradimento verso questo popolo, la cui storia tormentata ha attraversato gli ultimi due secoli. Una vicenda segnata dai conflitti e dalle lacerazioni e che viene spesso raccontata in modo molto divergente: una nazione privata del suo diritto a una patria, secondo certe versioni; un insieme rissoso di tribù e di estremisti, i cui leader hanno usato la retorica del nazionalismo per giustificare la loro brama di potere da chi li ha avversati. Non sorprenderà il dire che la realtà storica sia un impasto di entrambe le narrative.

Attualmente divisi fra diversi stati mediorientali (Turchia, Siria, Iraq, Iran), i curdi si considerano fra le maggiori vittime degli accordi di pace seguiti alla fine del primo conflitto mondiale, allorché Francia e Gran Bretagna scomposero i territori dell’Impero ottomano con logiche eurocentriche e senza porre attenzione ai popoli che li abitavano, piegando le aspirazioni nazionaliste di questi ultimi ai loro interessi.I problemi di convivenza sono stati particolarmente forti in Turchia e Iraq, minori in Siria e in Iran, paesi ove i rapporti della minoranza curda con il potere centrale sono stati meno violenti. In Turchia, in particolare, il Ventesimo secolo ha visto continue rivolte dei curdi, tanto che il Kurdistan turco è stato un’area interdetta agli stranieri fra il 1925 e il 1965. Nel 1983, Ankara ha imposto nuovamente il coprifuoco nella regione, in risposta ai sempre più violenti attacchi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), l’organizzazione più militante e radicale fra quelle curde, che era guidata dal noto leader curdo Abdullah Ocalan, rinchiuso da molti anni nelle prigioni turche ma ancora un punto di riferimento per molti attivisti.

Se negli anni ’90 si è assistito a una riduzione delle tensioni con Ankara, nello scorso decennio – complice l’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003 e la creazione di un governo regionale Kurdo estremamente indipendente – si è avuta una momentanea ripresa degli scontri fra le forze armate turche e i miliziani del PKK. La guerra per procura scoppiata in Siria nel 2011 ha, successivamente, rinfocolato ulteriormente le preoccupazioni turche. La minoranza presente nel paese aveva infatti profittato della guerra civile “fra gli arabi di Siria” per riguadagnare una larga autonomia: forte del sostegno occidentale e di un sostanziale accordo con il regime di Damasco, aveva occupato una vasta porzione di territorio nel nord-est del paese, combattendo le milizie jihadiste. Il loro successo nell’istituzionalizzare e consolidare un progetto politico come quello di Rojava e i colloqui con Damasco per avviarsi a una forma federale hanno contribuito a spingere il presidente Erdogan all’invasione di questi giorni, a cui nessuna potenza sembra voler concretamente opporsi, se non a parole o con gli inutili rituali degli embarghi.

In realtà, il disinnescare la mina di una entità federata curda in Siria è solo uno dei motivi che muovono un autocrate sempre più spavaldo come Erdogan. Egli era entrato nella guerra in Siria con ambiziosi progetti, ora falliti: i suoi protetti hanno perduto sul campo e si sono rivelati spesso quali movimenti islamisti tanto radicali quanto inaffidabili. L’intervento di questi giorni lo fa rientrare nella partita, creando una buffer zone in cui ricollocare le proprie pedine. Allo stesso tempo, l’avventura militare esterna gli permette di regolare i conti con quel che resta del dissenso interno, vuoi etnico, vuoi politico, vuoi religioso. Appoggiando movimenti salafiti e salafiti-jihadisti dimostra che la sua agenda è irrimediabilmente legata a una visione islamico-centrica del Medio Oriente, che marginalizza, soffocandola lentamente, ogni visione plurale e multireligiosa.

Non stupisce che gli altri attori internazionali presenti in Siria, dalla Russia di Putin all’Iran, allo stesso regime di Damasco, si limitino a esibire una contrarietà che sembra invece semplice tatticismo geopolitico. Essi hanno tutto da guadagnare da una Turchia che mostra i propri lati peggiori e che si isola sempre più dall’Occidente. Non stupisce neppure il balbettio imbelle dell’Unione Europea, incapace di formulare politiche veramente unitarie e all’altezza delle sfide che ci si pongono davanti. Deprime invece, nella sua miopia autolesionista, l’incoerente procedere di Washington, che ha tradito ancora una volta un proprio alleato nella regione, e che sembra procedere senza più una visione strategica della propria presenza al di fuori del continente americano. Fossero anche sbarcati in Normandia per liberare l’Europa, i curdi – tanto noi quanto gli americani – li avremmo pugnalati alle spalle lo stesso.

Riccardo Redaelli

Riccardo Redaelli è professore ordinario di Geopolitica e di Storia e istituzioni dell’Asia presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Presso lo stesso Ateneo dirige il Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Mediterraneo Allargato (CRiSSMA) e il Master in Middle Eastern Studies dell’ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali). Autore di numerosi articoli su riviste specializzate e di contributi a volumi miscellanei.

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