CHI SI PRENDE CURA DI CHI CI CURA?

Aprile 2020: nel cuore del lockdown dovuto alla minaccia pandemica, bucava gli schermi la lettera di un nonno ai suoi nipoti, scritta dalla RSA nella quale aveva trascorso, in forzato isolamento, i suoi ultimi mesi. Dopo aver taciuto ai suoi cari lo spaesamento, la solitudine, l'indifferenza subita, negli ultimi istanti di vita l’anziano degente aveva consegnato a poche righe la confessione di un disagio invisibile ai più:
Non volevo dirvelo per non recarvi dispiacere su dispiacere sapendo quanto avrete sofferto nel lasciarmi dentro questa bella prigione. Sembra infatti che non manchi niente ma non è così. (…) Non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera. In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici, cattivi?
Vincendo il pudore di chi non vorrebbe parlare di sé, neanche in fin di vita, il vecchio signore toccava così un punto nevralgico e spesso trascurato: il tema, cioè, dei vissuti emotivi che abitano i luoghi della cura. Non solo, evidentemente, quelli degli utenti, ma anche quelli dei professionisti: spesso delusi da un lavoro non sempre riconosciuto come dovrebbe, affaticati da ritmi estenuanti, scarsamente ascoltati e sostenuti dalle organizzazioni per le quali lavorano. La questione era ed è estremamente rilevante per tutti: chi ha cura di chi si prende cura?
Nei mesi successivi abbiamo applaudito, grati e ammirati, i medici, gli infermieri e operatori sanitari per il loro coraggio e la straordinaria dedizione profusa nei mesi drammatici dell'emergenza: li abbiamo chiamati giustamente "eroi" per come hanno avuto cura delle persone, della loro sofferenza e della loro paura, pur in condizioni estremamente difficili: e non solo delle persone che affollavano i reparti COVID degli ospedali, ma anche di quelle che restavano a casa, lontane e impotenti. Abbiamo anche compreso - forse come non mai - che quei professionisti sono più simili ai loro pazienti di quanto in genere non si creda: fragili, emotivamente esposti, vulnerabili a loro volta.
AVER CURA DEGLI ALTRI, AVER CURA DI SÉ
Ecco: l'emergenza non è soltanto il momento in cui irrompe l'imprevisto, ma anche quello in cui emergono (appunto) cose da tempo sommerse, le quali tornando a galla esigono una seria presa di coscienza e un'assunzione di responsabilità. In questo caso, ciò che emerge dall'emergenza è l'umanità degli operatori - autentica e indispensabile risorsa nel lavoro di cura - e, insieme ad essa, la scarsa attenzione di cui gode nei consueti percorsi della formazione iniziale e continua, che si preoccupa giustamente della loro preparazione tecnico-scientifica, ma poco o nulla delle competenze relazionali ed emotive di cui avranno bisogno.
L’assenza di una seria considerazione degli aspetti emotivi connessi al lavoro sociale e sanitario rischia di tradursi in un abbassamento della qualità dei servizi e, quel che è peggio, in una irrimediabile perdita di umanità. Le conseguenze estreme di questo impoverimento sono note, la cronaca del resto ogni tanto ce le restituisce impietosa: trascuratezze o maltrattamenti, nei casi più estremi abusi e violenze.
Il disagio degli operatori, in effetti, sembra particolarmente rilevante quando l’oggetto del discorso è il disagio stesso: pochi ne parlano; i più non si sentono neppure legittimati a farlo.
Numerosissime ricerche sullo stress da lavoro correlato e sul burnout tendono a dimostrare che l'eccesso di coinvolgimento emotivo può provocare un esaurimento delle energie e della motivazione; meno diffusa è la percezione, tuttavia, che il distacco e il cinismo, lungi dall'essere dei meccanismi di difesa affidabili, rischiano di ingenerare la stessa alienazione. Gli studi ci indicano da anni come prevenire il disagio professionale, come diagnosticarlo e curarlo, ma pochissimi sono i lavori che ammettono che la riflessione e il confronto quotidiano sui vissuti personali, nei contesti organizzativi, sia cruciale. I vissuti emotivi - soprattutto quelli considerati "negativi" e quindi negati nei luoghi di lavoro - sono ancora un "tabù" nelle professioni di cura: parlarne appare di norma impopolare, spiacevole, e comunque rischioso e difficile.
Un altro fenomeno in certa misura connesso a quello del burnout, anche se ben distinto, è quello della compassion fatigue, ovvero della riduzione della capacità del professionista di essere empatico, a motivo della prolungata esposizione a situazioni di sofferenza: un altro tabù delle professioni di cura, un'altra delle "ombre" sulle quali è necessario gettare luce. Come le molte fatiche e ambivalenze con le quali il lavoro di cura nei servizi sociali, educativi e sanitari deve misurarsi quotidianamente.
A queste "emergenze" è dedicato un libro, appena pubblicato insieme a Lucia Zannini, dal titolo Sfidare i tabù della cura. In esso un gruppo di ricercatori degli Atenei milanesi (Cattolica, Statale e Bicocca) cercano di sollevare il velo sugli impliciti e i paradossi dei lavori cosiddetti "altruistici" (con Vanna Iori, alcuni anni or sono, avevamo fatto un'operazione analoga con Le ombre dell'educazione), ma anche di offrire percorsi e materiali per la formazione emotiva dei professionisti della cura. I temi affrontati nel volume sono tutti, a diverso titolo, problematici e perlopiù evitati: dai margini di dubbio e di indeterminazione di un sapere clinico che non può mai essere esatto e privo di incertezze, alla presenza ineliminabile del corpo proprio e altrui come elemento di ancoraggio e di opacità; dall'accettazione della propria vulnerabilità come fondamento (si potrebbe dire ontologico) di un'etica della cura, alla ricerca di un difficile equilibrio tra prossimità e distanza nella relazione - solo per citarne alcuni.
Se c'è una cosa che i professionisti della cura (non solo medici e paramedici, ma anche assistenti sociali, operatori sociosanitari, educatori, perfino insegnanti) hanno dovuto imparare sulla loro pelle, in quest'anno faticoso e incerto, è che chiunque intenda aver cura di altri deve necessariamente aver cura di sé. In fondo, non è che la verità contenuta nel famoso archetipo junghiano del "guaritore ferito" - che nondimeno continua a essere oggetto di una sorta di rimozione collettiva. Solo imparando a riconoscere nella propria debolezza un paradossale motivo di forza, i professionisti potranno onorare quella che Eugenio Borgna ha definito la "comunità di destino tra chi cura e chi è curato". La scissione dell’archetipo, invece, separando radicalmente il mondo dei sani da quello dei malati (dei grandi dai piccoli, dei normali dai diversi), rende estranei gli uni agli altri, produce incomprensione e - quel che è peggio - espropria la cura del suo senso più profondo.
Da questo punto di vista, la conclusione della lettera da cui siamo partiti suonava quasi come un monito:
Fate sapere ai miei nipoti (e ai tanti figli e nipoti) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi.
Non è mai troppo tardi per affrontare i nostri tabù: essi segnalano sempre la presenza di qualcosa di sacro, da esplorare e custodire attentamente. E non c'è forse nulla di più sacro della cura: senza, del resto, nessuno di noi potrebbe esistere.
Daniele Bruzzone
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