La Biennale di Venezia: un circo per il sistema dell'arte?

Ha fatto scalpore la mostra di Marina Abramovic dedicata a Teresa d’Avila, che si è chiusa da poco alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano: un ciclo di tre video, dal titolo The Kitchen. Homage to Saint Therese. L’iniziativa, voluta da Casa Testori, ha raccontato una performance dell’artista svoltasi all’ex convento di La Laboral a Gijon, in Spagna, un monastero ora abbandonato dove le clarisse ospitavano piccoli orfanelli. E non è un caso che un’altra realizzazione della Abramovic, Balkan Barock, esposta a Venezia nel 1997, con l’artista che se ne stava per ore e ore davanti al pubblico a lucidare una montagna di ossa di bue spolpate – una metafora del terribile conflitto dei Balcani -, sia fra le pochissime che hanno lasciato un segno negli ultimi vent’anni nel panorama delle Biennali d’arte contemporanea tenutesi sulla Laguna. Ne è convinto Maurizio Cecchetti, uno dei rari critici d’arte italiani (attività che da anni esercita su “Avvenire”) che ancora credono nella rilevanza, estetica ed etica, della propria funzione, e che è recente autore di un pamphlet sarcastico e amaro insieme, Come fu che la Biennale diventò un circo. Corsi e ricorsi dell’era Baratta (La Vela, Viareggio 2019), con una postfazione di Alfonso Berardinelli.
La Biennale che ospitava l’esibizione della “nonna della performance art”, come la stessa Abramovic si è definita, era promossa da Germano Celant e veniva dopo quelle dirette da Achille Bonito Oliva e da Jean Clair, probabilmente le ultime a rivestire un ruolo propositivo e non dipendente dalla logica del mercato. “Era un segno dei tempi – commenta Cecchetti – dell’arte che non si arrende e parla la propria lingua, non quella delle multinazionali del piacere estetico e sovvenzionato”. Purtroppo si contano sulle dita di una mano le opere che negli ultimi vent’anni della Biennale si sono imposte come capolavori: fra questi si segnalano artisti come l’austriaca Maria Lassnig, forse la più grande pittrice contemporanea, scomparsa nel 2014, cui nel 2013 venne assegnato il Leon d’oro alla carriera; o come Rosemarie Trockel col suo grande occhio al centro del padiglione tedesco nel 1999, o gli italiani Giuseppe Penone e Fabio Mauri. Per il resto, è stato tutto un ammiccare agli artisti di successo, a chi ha accettato di asservire l’arte contemporanea alla mera logica della comunicazione. Invece, secondo Cecchetti, “una Biennale dovrebbe dirci che cosa succede nell’arte, che cosa hanno elaborato di meglio negli ultimi due anni gli artisti già consolidati e quelli che vanno imponendosi decisamente all’attenzione pubblica: non deve diventare un teatro per le retoriche della globalizzazione”. Il che si è verificato persino quando, come nel 2015, il curatore Okwui Enzewor, nigeriano naturalizzato statunitense, ha voluto realizzare una manifestazione esplicitamente antiglobalizzazione, finendo in realtà per restare prigioniero degli stessi schemi del mercato. Il problema infatti non sono tanto i curatori, ma il sistema dell’arte, quel conglomerato che unisce collezionisti e galleristi, manager ed esperti, artisti e critici che accettano di far parte del circo Barnum dello spettacolo dell’arte. Un sistema rappresentato eccellentemente da Damien Hirst, Jeff Koons e Maurizio Cattelan, “la triade dei sofisticatori dell’arte secondo la logica pubblicitaria”. Ma l’arte diventa così “un oggetto da esibire pubblicamente, da fruire collettivamente, da mostrare a tutti come prova del raggiungimento di uno status o di una ricchezza. E’ il denaro che decide l’estetica dell’oggetto, è il prezzo che fa grande l’artista”.
Imperatore quasi ininterrotto degli ultimi vent’anni a Venezia è stato, pare quasi inutile dirlo, l’economista e manager Paolo Baratta, ed è la sua gestione (che pare ormai giunta al termine: si è in attesa della nomina del successore da parte del ministro Franceschini) ad essere messa sotto accusa dal pamphlet. Una gestione in cui “l’arte è diventata il teatro e il pegno di un nuovo wargame condotto sul terreno economico e su quello della comunicazione”. L’arte dovrebbe piuttosto esprimere un sentire diverso e profondo, toccare la realtà lasciandola intatta nel suo volto “indefinibile e misterioso”, essere perfino inattuale perché “inesausta esposizione davanti all’essere”, ciò che la rende “vera presenza”. Una sacralità dello sguardo: è questo che è stato pressoché impossibile osservare alle varie versioni della Biennale di Venezia, dal 1999 fino a quella appena conclusa.
Roberto Righetto
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