Dante: “il signore dell’altissimo canto”

di Giuliano Vigini
Dante è sempre stato nella Chiesa uno dei riferimenti fondamentali come poeta e come cantore della fede. Di volta in volta, i Papi hanno celebrato in vari documenti, specialmente in occasione di centenari della nascita o della morte, la grandezza della figura di Dante. Per restare ai tempi nostri, noi sappiamo che, dall’enciclica In praeclara summorum (30 aprile 1921) di Benedetto XV – “indirizzata ai diletti figli professori ed alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico” – al messaggio (4 maggio 2015) di Francesco, è stato tutto un seguito di riconoscimenti dell’universalità e dell’attualità del messaggio di Dante, sotto tutti i punti di vista. Ci si è soffermati in particolare sul significato religioso ed etico, oltreché artistico, dell’itinerario personale e comunitario della Divina commedia, disegnato tra abissi di miseria, aperture di riscatto e orizzonti di speranza, dove l’umanità si perde, si redime e alla fine ritrova sé stessa in un infinito spazio di luce.
Un posto particolare, per ampiezza e profondità di analisi, occupa il Motu proprio di Paolo VI, Altissimi cantus (7 dicembre 1965): importante, tra l’altro, perché con questa lettera apostolica il Papa istituiva presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una Cattedra volta a promuovere gli studi danteschi. La “singolare venerazione” di Paolo VI per Dante si manifesta già nella sua definizione di “signore dell’altissimo canto”: quel canto, dice il Papa, che lo ha fatto diventare “nostro” per diritto speciale: nostro per la fede e l’amore da lui testimoniato per la religione cattolica, per la Chiesa e, nonostante le sue veementi requisitorie contro alcuni pontefici, per il Vicario di Cristo in terra. Nostro, aggiunge, non perché si voglia sbandierare un trofeo, ma per esaltare la ricchezza del pensiero e della spiritualità cristiana che emerge dal suo immortale poema.
L’elevatezza e la sublimità di Dante nella Divina commedia è di essere arrivato alla “verità che tanto ci sublima” (Par. XXII, 42), abbracciando universalmente “cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane”, con l’obiettivo precipuo di “cambiare radicalmente l’uomo e di condurlo dal disordine alla sapienza, dal peccato alla santità, dalle sofferenze alla felicità”. Sotto questo aspetto, la Divina commedia è vista come un itinerarium mentis in Deum, una continua ascesa che “diventa epos di vita interiore, epos di grazia celeste, epos di vita esperienza mistica, di virtù multiforme; diventa teologia della mente e teologia del cuore”.
I regni della pena, della purificazione e del gaudio eterno vedono passare un’infinità di figure e di personaggi, attraverso i quali Dante ricostruisce ciò che si è perduto (l’Inferno), ciò che si sospira di ritrovare (il Purgatorio), ciò che si conquista per sempre (il Paradiso), nel nuovo ordine della pace e dell’amore, venendo progressivamente ad “illuminare, in reciproca armonia, la fede e la ragione, Beatrice e Virgilio, la Croce e l’Aquila, la Chiesa e l’Impero”. Un cammino dove ogni valore autenticamente umano si innalza nella misura in cui si allontana dai beni della nostra infelice terra per salire in alto, dove ci si immerge nella contemplazione delle cose celesti. In questa luce si possono collocare anche i rapporti tra Chiesa e Impero, realtà indipendenti, ma collaboranti, entrambe al servizio della res publica christiana: “una sorta di unità-distinzione – come acutamente notava Lorenzo Ornaghi in una conferenza tenuta a Ravenna nel 2009 – che caratterizza, in Dante, il rapporto tra potere spirituale e quello temporale, dal momento che entrambi sono chiamati, pur nella necessaria distinzione, a cooperare armoniosamente per il bene integrale degli uomini: ossia per la felicità terrena e, “insieme”, per la salvezza delle anime”.
Unendo arte poetica e sapienza teologica, poeta dei teologi e teologo dei poeti, Dante rappresenta così per Paolo VI il “signore dell’altissimo canto”, dove tutto si eleva a un grado così sublime di bellezza e perfezione da potersi definire divinamente ispirate. Per questo bisogna onorare e studiare Dante, leggendo il suo “sublime capolavoro”, la Divina commedia,“integralmente, senza precipitazione né di corsa, ma con mente penetrante e attenta riflessione”. Non poteva esserci messaggio più pertinente per questo 7° centenario della morte di Dante.
Giuliano Vigini
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