DOPO LA PANDEMIA: RINASCERE PER NON MORIRE

DOPO LA PANDEMIA: RINASCERE PER NON MORIRE

02.05.2020
di Vittorio Emanuele Parsi

Per cercare di immaginare come stanno cambiando e potrebbero ancora cambiare gli scenari internazionali, occorre considerare tre dimensioni. La prima è quella costituita dall’estrema fragilità delle reti che hanno strutturato l’interdipendenza nell’era dell’iperglobalizzazione. All’insegna della mobilità, della velocità, e dell’efficienza il sistema nervoso del mondo si è progressivamente assottigliato, sottovalutando in maniera clamorosa un elementare principio. Ovvero che la resilienza totale di qualunque sistema è dettata dalla vulnerabilità del suo elemento più fragile: nel nostro caso il fattore umano. Un po’ come accade a bordo, dove la sopravvivenza dell’equipaggio è il punto fondamentale per la progettazione, la manutenzione e l’efficienza del “sistema-nave”. La seconda è rappresentata dal tempo: la situazione è in continua evoluzione. Si parla di fase 1, di fase 2, addirittura di fase 3, ma il passaggio dall’una all’altra non avviene per nette cesure, né è sincrono tra aree geografiche, settori economici, segmenti di popolazione e neppure è irreversibile. La terza, che forse è la più negletta, riguarda il fatto che la possibilità di qualunque cambiamento non passa solo per l’indebolimento dell’assetto vigente, per la mera dispersione del potere, ma anche per una sua nuova concentrazione, su un punto di equilibrio diverso. Questo è il motivo per cui, nonostante la gravità che la pandemia potrebbe assumere (e probabilmente assumerà) in Africa o in America Latina o in alcune aree dell’Asia, questo articolo non tratterà di quelle regioni: assumo cioè che anche la modifica dell’attuale distribuzione del potere non produrrà una sua concentrazione sufficiente a fare di quelle aree l’epicentro di significativi cambiamenti sistemici.

Fatta questa doverosa premessa, e provando a combinare le tre dimensioni appena introdotte, a me pare che gli scenari possibili siano sostanzialmente tre (ne ho scritto più diffusamente in un ebook uscito per Piemme il 21 aprile scorso, Vulnerabili: come la pandemia cambierà il mondo, a cui rimando per una trattazione più esauriente).

Il primo è quello della Restaurazione, nel quale, esattamente come avvenne nel 1815, prevarrà l’illusione di poter tornare a ricostituire l’ordine del sistema politico ed economico (tanto domestico quanto internazionale) “come se” quello della pandemia sia stato un lungo, drammatico incidente di percorso. Ovviamente non sarà presentato esplicitamente così, non foss’altro perché la crisi sociale ed economica, che in parte seguirà e in parte si sovrapporrà a quella sanitaria, sarà inevitabilmente molto profonda e seminerà ulteriori e copiose diseguaglianze, oltre che accrescere la sensazione (corretta) di profonda iniquità. Farà invece leva su modesti e temporanei cambiamenti, contraddistinti dal richiamo alla straordinarietà della situazione e dalla superficialità della loro natura.

Per coagulare il consenso, questa reazione restauratrice si appoggerà su due elementi entrambi insidiosi: da un lato la voglia di “normalità” che opinioni pubbliche prostrate da una innaturale e intenibile condizione di distanziamento sociale metteranno in campo. Il ritorno a una vita decente, fatta di incontri e socialità privata sarà esattamente il punto su cui insisterà la comunicazione, a mano a mano che la dimensione emergenziale della “pestilenza” potrà perdere centralità nella struttura del suo racconto. Per socialità privata intendo qualche cosa di analogo al fenomeno del “riflusso nel privato” che in Italia abbiamo vissuto della seconda parte degli anni ’80. Il secondo elemento sarà costituito proprio da quello della narrazione, con una convergenza – che già si può osservare – sulla necessità di una ripresa dell’attività economica, alla quale le stesse esigenze sanitarie di “distanziamento fisico” e “monitoraggio degli spostamenti” offriranno la possibilità di indurre un ulteriore disciplinamento del malcontento e di emarginazione della protesta.

In questa ipotesi, gli attori del sistema internazionale continuerebbero nella loro tradizionale dinamica, riassestata solo marginalmente ma non cambiata nei suoi tratti salienti. Cina e Stati Uniti proseguirebbero il loro confronto per la leadership globale e l’Unione europea sopravvivrebbe, accentuando la sua marginalità e sottoponendosi a lifting minimi, all’insegna della continuità. Sarebbe un ordine precario, instabile, che riprodurrebbe un’interdipendenza imposta al prezzo della continua compressione dei diritti della sua componente umana. I regimi politici prevalenti sarebbero quelli tecnocratici e a bassa mobilitazione.

Il secondo scenario è quello della Fine dell’Impero, nel quale più o meno progressivamente la globalizzazione verrebbe meno, sostituita da un mondo fatto di sfere di influenza politica e aree di interdipendenza economica sostanzialmente chiuse le une rispetto alle altre. Gli scambi sulla lunga distanza riguarderebbero una serie di beni sempre più ridotta. Nessuno eserciterebbe una leadership globale, gli Stati Uniti patirebbero un deciso declassamento, mentre la Cina vedrebbe accresciuta la propria influenza. La Ue potrebbe dissolversi e le democrazie si indebolirebbero ulteriormente. I regimi politici prevalenti associati a questo scenario sarebbero di tipo leaderistico-populista, ad alta mobilitazione ma dall’alto.

È da sottolineare che un simile esito potrebbe avviarsi direttamente oppure in maniera più differita nel tempo, come conseguenza del fallimento del tentativo di restaurazione. Quest’ultimo spianerebbe la strada a chi da tempo cavalca l’onda delle contraddizioni dell’iperglobalizzazione proponendo vie di uscita “sovraniste”, che incontrerebbero maggior sostegno in seguito al dissesto sociale causato dalla pandemia in sé e dalla frustrazione per l’inconcludenza delle soluzioni prospettate e poi non realizzate dalla Restaurazione: per dirla in maniera semplice, dalla somma del disastro della fase 1 e della fase 2. Si tratterebbe comunque di una prospettiva che non modificherebbe in profondità né i rapporti di forza tra capitale e lavoro né, né la diseguaglianza del sistema, né la sua complessiva iniquità. La capacità di governo multilaterale di quella parte di interdipendenza che “è nelle cose”, a prescindere dall’esistenza dei confini (ambientale, migratoria, epidemiologica), diminuirebbe ulteriormente. E quindi saremmo comunque di fronte a un assetto altamente instabile ed enormemente fragile.

C’è poi un terzo scenario, quella del Rinascimento, che scommette sulla capacità di costruire un’interdipendenza più solida perché fondata sulla protezione del suo fattore più vulnerabile: quello umano. Molto dipenderà dalla nostra capacità di cogliere l’opportunità offerta dalla pandemia per aggredire gli aspetti strutturali dell’assetto politico ed economico che devono essere modificati: come è accaduto dopo la Grande depressione degli anni Trenta, dopo la Seconda guerra mondiale e dopo la crisi degli anni Settanta (in quest’ultimo caso nella direzione opposta alle due precedenti). L’ipotesi è che proprio la magnitudine con cui la pandemia sta colpendo gli Stati Uniti provochi non solo un decisivo ricambio della leadership (a novembre) ma un vero e proprio riorientamento delle politiche e dei principi che le ispirano: in una direzione più progressista, inclusiva e solidale. Paradossalmente, la dissipazione del potere americano sarebbe limitata dalla capacità di formulare un “New Deal per il XXI secolo”, in grado di suscitare la convergenza delle democrazie occidentali e l’uscita dal paradigma neoliberale. Questa sarebbe la sola via per riconciliare politica ed economia, democrazia e mercato, libertà e solidarietà così da rendere le nostre società più eque e quindi più solide, proteggendole da futuri shock esterni e da eventuali disordini sociali di vasta portata. Di fatto, sarebbe il solo scenario compatibile con la rivitalizzazione delle democrazie e con una radicale trasformazione della Ue più in linea con lo spirito dei Padri fondatori, ovvero quello di un innovativo e maestoso progetto innanzitutto politico.

Vittorio Emanuele Parsi

È professore ordinario di Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica di Milano. È inoltre direttore dell’ASERI ed editorialista de “Il Sole 24 ore” e “Avvenire”.
Dal 2013 è co-chair dello Standing Group Relazioni Internazionali della Società Italiana di Scienza Politica.
Ha insegnato e tenuto conferenze, seminari e lezioni in numerose università in Italia e all’estero, tra cui: Princeton University (Princeton, N.J.), Georgetown University (Washington, D.C.), Cornell University (Ithaca, N.Y.), Catholic University of America (Washington, D.C.), St. Anthony College (University of Oxford), Université de Saint Joseph (Beirut, Libano), Royal University of Phnom-Penh (Cambodia), Novosibirsk State University (Russia), Kazakh Law Academy (Kazakhstan).
Gioca come ‘centro’ negli Old del Rugby Monza. È capitano di fregata (SM) della riserva selezionata della Marina Militare.

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