Doppia vulnerabilità: la violenza che non si ferma di fronte alla gravidanza

37 sono le coltellate, con cui è stata uccisa dal fidanzato Giulia Tramontano. Il suo caso, tra gli oltre 100 femminicidi compiuti in Italia dall’inizio del 2023, ha particolarmente colpito l’opinione pubblica e il dibattito negli ultimi mesi, poiché Giulia Tramontano era al settimo mese di gravidanza. Così come avviene nella quasi totalità dei casi di femminicidio, l’iniziale ipotesi di un raptus - impropriamente chiamato in causa a livello mediatico - lascia spazio progressivamente alla premeditazione e/o a scenari di maltrattamenti e violenza cronica, di cui il femminicidio rappresenta solo il culmine finale.
Diversamente da quanto si possa comunemente pensare, la gravidanza non protegge la donna dal subire aggressioni, ma, al contrario, rappresenta un periodo in cui il rischio dell’emergere e/o dell’escalation della violenza domestica sono maggiori. Le ricerche scientifiche e i dati statistici nazionali e internazionali hanno in realtà confermato da tempo e in modo solido questo link: l’OMS stima che globalmente 1 donna su 4 abbia subìto una qualche forma di violenza nel corso della gravidanza e l’Associazione Ginecologi Italiani ritiene che la violenza domestica rappresenti una delle cause principali di morte in gravidanza per le donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni. L’indagine pubblicata nel 2015 dall’ISTAT segnala che più dell’11% delle rispondenti ha riportato episodi di violenza nel corso della gravidanza. Tra queste, nell’11.5% dei casi la violenza è iniziata in questo periodo, nel 16.6% ha subito un’escalation, nel 50.6% si è mantenuta costante, mentre solo nel restante 17% dei casi è diminuita. Come per tutte le altre stime e statistiche relative alla violenza domestica, è bene sottolineare la possibilità che queste siano sottodimensionate, a causa dell’ampiezza difficilmente misurabile del sommerso.
Cosa può condurre all’esplosione ed escalation della violenza in un periodo tradizionalmente e stereotipicamente rappresentato solo con toni positivi? Il fatto che si tratti di una gravidanza indesiderata dal partner non emerge essere un fattore esplicativo. Infatti, questo accresciuto rischio caratterizza il periodo della gravidanza non solo quando il concepimento è indesiderato, o è a sua volta l’esito di una violenza sessuale perpetrata nella coppia, ma anche quando è desiderato da entrambi i partner. La gravidanza implica sempre una delicata transizione nell’equilibrio della coppia e del sistema familiare. L’arrivo di un “terzo” nelle coppie in cui viene agita violenza domestica (più precisamente intimate partner violence) può essere vissuto dal maltrattante come una minaccia allo status di potere e controllo sino a quel momento esercitati sulla partner. La violenza spesso inizia nella coppia in questa fase o si fa più frequente, grave ed intensa, proprio con l’obiettivo di ristabilire il dislivello di potere nella coppia, ponendo la donna in una posizione subordinata.
Come facilmente immaginabile, le conseguenze psicofisiche per la donna, il feto e il nascituro sono gravissime, anche nei casi in cui non si giunge all’atto estremo di femminicidio. Le donne riportano spesso sintomi ansiosi o depressivi, sintomi post-traumatici, lesioni ed emorragie. Anche il feto viene gravemente colpito, sia in modo diretto, ad esempio mediante percosse deliberatamente rivolte al ventre; sia in modo indiretto, accrescendo il livello di stress materno che, passando sottopelle, ha un impatto significativo sullo sviluppo prenatale. Sono frequenti inoltre aborti spontanei, distacco della placenta, parto pretermine o altre condizioni di rischio per lo sviluppo precoce, come il basso peso alla nascita.
Il rischio di violenza in un periodo che già per natura implica una maggiore vulnerabilità per la donna è un fenomeno di salute pubblica gravissimo. Dall’altro lato, tuttavia, proprio le visite di routine e monitoraggio in gravidanza e i corsi di accompagnamento alla nascita possono rappresentare una finestra preziosa per l’individuazione precoce e la prevenzione. In qualsiasi ambito, per poter “vedere” e riconoscere un maltrattamento è essenziale che la sua possibile presenza sia almeno “contemplata”. Così come nel caso dei maltrattamenti all’infanzia, la formazione dei professionisti e il superamento di un’immagine stereotipata della famiglia solo come possibile luogo di protezione e cura, può permettere di cogliere e riconoscere segni e sintomi potenzialmente associati alla violenza, anche quando non esplicitamente riportati dalla donna. Prevedere degli screening di routine, anche mediante l’uso di appositi e agili strumenti (ad esempio l’abuse assessment screen), che contemplino la violenza tra le altre possibili condizioni di rischio per la salute materno-infantile, può effettivamente contribuire a rendere visibili i casi sommersi eattivare adeguate procedure di invio alla Rete Antiviolenza territoriale, dove la donna potrà trovare supporto e un aiuto specializzato nel progettare - in linea con i suoi desideri e bisogni - il suo futuro libero dalla violenza.
Serena Grumi
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