Editoria cattolica all'anno zero: le case editrici rispondono

di Guido Dotti, Qiqajon
L’analisi accomuna due settori molto diversi come la narrativa e la saggistica (teologia, storia, spiritualità…), ma in ogni caso tra i dati sociologici andrebbe esplicitato l’invecchiamento del bacino dei lettori “forti” in ambito religioso, dovuto anche alla drastica riduzione del numero dei “cattolici praticanti”, specialmente tra le nuove generazioni, nonché dei presbiteri, religiosi e religiose.

È infine motivo di profonda amarezza constatare che il rapido declino dell’editoria cattolica verso “l’anno zero” si sia verificato in concomitanza con la stagione del “Progetto culturale” della C.E.I.: le cospicue risorse a disposizione non hanno favorito la seminagione di un rinnovato pensiero teologico e di una spiritualità capace di ricollocare il Vangelo al cuore dell’annuncio cristiano.
di Lorenzo Fazzini, Editrice missionaria italiana
Quando si parla di crisi dell’editoria, e di quella religiosa in particolare, la diagnosi non di rado viene fatta all’insegna della nobilissima arte dello scaricabarile. Ovvero: gli editori si lamentano di come lavorano i librai (le librerie cattoliche, effettivamente, a essere onesti, poche volte sono luoghi attrattivi…); i librai si lamentano della distribuzione (troppo lenta, troppo costosa, molte volte inefficiente…); la distribuzione si lamenta degli editori (pubblicano troppo, troppi titoli insieme, troppi libri che si assomigliano); i lettori si lamentano dei librai perché, quando finalmente vanno in libreria per cercare un titolo, non di rado non lo trovano. E così Amazon si frega le mani…

di don Simone Bruno, San Paolo
Spettabile Redazione, io e il mio staff direttivo abbiamo letto con attenzione l’articolo a firma di Roberto Righetto, dedicato allo stato dell’editoria cattolica italiana e apparso sull’ultimo numero di Vita e Pensiero Plus, del 3 marzo scorso.

Ringraziando per la richiesta di coinvolgimento nel dibattito, riteniamo che il modo migliore per favorire un confronto proficuo e capace di condividere piste operative concrete, sia riunire intorno a un tavolo di lavoro gli editori cattolici e chi critica il loro operato, per discutere con serenità e cognizione di causa il fenomeno che è stato evidenziato. In tal modo avremmo l’opportunità di delineare il contesto culturale odierno, analizzare il mercato librario generale e religioso e delineare le strategie che gli editori cattolici stanno elaborando per attraversare con successo il profondo cambiamento in corso. Restiamo in attesa di un vostro riscontro e mettiamo a disposizione la nostra sede come luogo per ospitare l’incontro proposto.
di Alberto Dal Maso, Queriniana
In Italia l’editoria cattolica rischia forse di vedersi confinata tra i ricordi del bel tempo passato? La situazione è articolata e complessa, certo. Alcuni settori si mostrano vivi e vegeti. Interi altri settori – se non sono già scomparsi – arrancano: stentano a reagire, sopravvivono boccheggiando. Le proiezioni sul futuro non sono affatto confortanti. Risulta allora urgente un coraggioso ripensamento a trecentosessanta gradi: questo, anzitutto, leggo nelle analisi di Giuliano Vigini, condivise e rilanciate da Roberto Righetto.
Per uscire dall’angolo, qualcuno si limita a riproporre elenchi piuttosto consueti di lamentele (la colpa è della globalizzazione, o della secolarizzazione, o di un demoniaco combinato disposto fra le due) e punta su dettagli strumentali e su tatticismi di corto respiro (un target da ricalibrare furbescamente, nuove tecnologie da sfruttare a capofitto, un mercato da ricolonizzare con astuti espedienti) che sono efficaci, quando va bene, solo sui sintomi. Occorre spingersi più a fondo: è del tutto inadeguata una risposta alle sfide odierne che punti esclusivamente sugli aspetti tecnico-organizzativi e strategico-commerciali dell’editoria religiosa.
Qualcun altro cerchia con l’evidenziatore le debolezze strutturali di antica data che meriterebbero di essere risolte: l’ostacolo di un linguaggio “introverso”, diretto cioè implicitamente a chi già pratica il lessico ecclesiale e ne condivide i presupposti; l’anomalia di un sottosviluppo cronico sia nell’editoria rivolta a bambini, ragazzi, young adults, sia nel settore della narrativa; il limite di una microsomia endemica dell’editoria religiosa nostrana, restia a innescare opportune sinergie e ad avviare una politica di alleanze, fusioni, acquisizioni; l’asfittico confronto con la realtà internazionale più vasta, fuori dai confini ristretti del Bel Paese, che suggerirebbe di guadagnare una visuale meno miope e provinciale. Tutto vero, certo: questo e altro ancora. Occorre intervenire.
E, tuttavia, vorrei sottolineare soprattutto che editori (e anche librai) cattolici hanno una nobile missione culturale ed ecclesiale da svolgere, a più livelli. Ho accennato altrove (Chiesa in uscita e buona stampa) ad alcune implicazioni che discendono da questa consapevolezza. Qui mi limito ad appellarmi al concetto sintetico di “qualità”. È drammaticamente letale una incapacità di declinare nel nuovo contesto – nella nostra attualità – il paradigma di una produzione all’insegna della qualità. Certo, i criteri per definire che cosa sia qualità possono essere diversissimi (e, comunque, non possiamo farceli dettare dal mercato): su questo si esigerebbe magari una riflessione fondante. Certo, affrontare il tema della qualità è scomodo, smobilitante: richiede una buona dose di discernimento e di autocritica; reclama visione, creatività, intelligenza. Ma il nodo va assolutamente sciolto: e, dunque, ben venga il contributo di tutti!
di Cesare Cavalleri, Ares
Sono sempre più insofferente alle etichette confessionali. Che significa «editoria cattolica»? Che è fatta da cattolici o da istituzioni religiose? Che pubblica libri di spiritualità e di teologia? L’essere cattolici non garantisce la qualità dei libri, anzi, può essere controproducente. San Josemaría Escrivá diceva: «Quando vedo un’insegna “Pasticceria cattolica”, passo oltre perché penso: Qui fanno i dolci senza zucchero». Del resto, gli ultimi pontefici hanno affidato e affidano le loro opere a editori «laici», evidentemente perché ritengono di ottenere da loro migliore efficienza e più ampia diffusione.

Quanto ai contenuti, libri di spiritualità e di teologia sono pubblicati anche da editori non espressamente cattolici, e certi editori «cattolici» pubblicano libri pastoralmente negativi, quando non addirittura eretici.
Insomma, gli editori non si distinguono in «cattolici» o non cattolici, bensì in editori professionalmente seri (grandi o piccoli, non importa) e in editori pasticcioni. Il discrimine è la professionalità. Saranno «cattolici» i libri che hanno un contenuto di verità, siano romanzi, saggi storici o teologici. E saranno cattolici gli editori che li pubblicano.
di Roberto Cicala, Interlinea
«Scrutare i segni dei tempi e interpretarli…» è l’invito della Gaudium et spes ancora attuale e spesso inatteso non solo dall’editoria cattolica: perché il problema forse non sta tanto nella produzione e nella scelta dei libri, o nelle classifiche, ma nell’impegno della Chiesa nella cultura e nella formazione permanente. E se prima di una fenomenologia dell’editoria cristianamente ispirata non servisse indagare una sua ontologia? Una soluzione sostenibile non dovrebbe accogliere tutti in una riserva indiana né riprendere marchi ormai tramontati, e non più rivitalizzati per volontà degli stessi artefici, come La Locusta. Ma più che coraggio spesso si avverte la mancanza di progetto; più che di uomini nuovi (e i giovani ci sono) servirebbero format nuovi («cultura è forma» ricordava Testori) e sinergie sostenute dalla base e dai vertici. Il dibattito sollevato da Righetto su “Vita e Pensiero” è sacrosanto e necessario, a patto di guardare al segno dei tempi rappresentato dalla crisi senza ripiegamenti ma interpretandolo come mutamento necessario: l’editoria che cambia, anche quella che s’ispira al cattolicesimo, deve innovare il prodotto a partire dai processi. Coraggio, sì, ma progetti condivisi. Aveva ragione Luciano Erba, dobbiamo ritornare alle nostre radici senza rigurgiti d’amarcord e senza poi dover confessare che però «sono tornato lontano troppo lontano».
Simone Biundo
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