Elogio dell’orma

Elogio dell’orma

17.11.2018
di Carlo Ossola

Il convegno «Dio non abita più qui? Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici» convocato a fine novembre 2018 alla Pontificia Università Gregoriana richiama un problema che ha attraversato tutto il XX secolo, e che Marcel Proust ha lucidamente meditato prima in La mort des cathédrales e poi in Pastiches et mélanges; potremmo con lui accedere alla stessa ipotesi, anche oggi:

«Supposons pour un instant le catholicisme éteint depuis des siècles, les traditions de son culte perdues. Seules, monuments devenus inintelligibles, d’une croyance oubliée, subsistent les cathédrales, désaffectées et muettes. Un jour, des savants arrivent à reconstituer les cérémonies qu’on y célébrait autrefois, pour lesquelles ces cathédrales avaient été construites et sans lesquelles on n’y trouvait plus qu’une lettre morte; lors des artistes, séduits par le rêve de rendre momentanément la vie à ces grands vaisseaux qui s’étaient tus, veulent en refaire pour une heure le théâtre du drame mystérieux qui s’y déroulait, au milieu des chants et des parfums, entreprennent, en un mot, pour la messe et les cathédrales, ce que les félibres ont réalisé pour le théâtre d’Orange et les tragédies antiques. Certes le gouvernement ne manquerait pas de subventionner une telle tentative.[...] Ainsi donc voici des savants qui ont su retrouver la signification perdue des cathédrales : les sculptures et les vitraux reprennent leurs sens, une odeur mystérieuse flotte de nouveau dans le temple, un drame sacré s’y joue, la cathédrale se remet à chanter. [...] Des caravanes de snobs vont à la ville sainte (que ce soit Amiens, Chartres, Bourges, Laon, Reims, Beauvais, Rouen, Paris) et, une fois par an, ils ressentent l’émotion qu’ils allaient autrefois chercher à Bayreuth et à Orange : goûter l’œuvre d’art dans le cadre même qui a été construit pour elle. Malheureusement, là comme à Orange, ils ne peuvent être que des curieux, des dilettanti ; quoi qu’ils fassent, en eux n’habite pas l’âme d’autrefois».

Ho più volte richiamato il problema e non vi torno che per una chiosa: le chiese abbandonate cresceranno; ma bisogna poterle contemplare in quel silenzio dei secoli che oggi ci consegnano San Galgano o la cappella di San Quilico di Montilati in Corsica: cessata la funzione, rimane l’orma per sempre impressa nella storia umana. Dove l’uomo ha creduto non è possibile altro che il credere o il doloroso memoriale di quello che fu; l’aura del sacro non è trasformabile: una chiesa non si salva cambiando le funzioni e salvaguardando cornicioni e affreschi. Non si salva che lasciandola, come il grano e la gramigna della parabola evangelica, alla falce della fine dei tempi.

Anche nel mondo secolare vige la stessa regola: è altrettanto profanata una antica navata che diventi cinema quanto il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi a Torino destinato a divenire, nonostante appelli e proteste, un ennesimo supermercato. Il valore simbolico non può mai essere funzionalizzato: dimora, ecco tutto, presenza o rovina. Lo ricordava già Ungaretti a proposito di Ercolano: «ma certo la rovina […] è, per decreto della Provvidenza, sempre alleata a un rinnovamento della fecondità. […] Si lascino queste buche lentamente incrostarsi d’un sangue lunare; e questo teatro, coll’ombra di guardia, acquisterà una profondità poetica unica» (Il papiro della calma, 1932).

Nathan Wachtel ha scritto un bel libro sulle fragili tracce di una fede di ebrei esuli, nella prima età moderna, in nuove terre di esilio: La foi du souvenir. Labyrinthes marranes (2001), vestigia appena tra tanto oblio. Trasformare, aggiornare, rendere moderno, modifica la memoria molto più che la permanenza del lutto; non importa sapere se altro crollerà, ma che – come il Foro romano – ciò che rimane sia l’autentica traccia che susciti ancora ammirazione e forse pietas; non le chiese hanno bisogno di essere salvate, ma la trasparenza del credere che le abitò. Più di tanti devoti, preoccupati del “patrimonio del sacro”, bene lo ha inteso - in una delle sue ultime poesie - Yves Bonnefoy, contemplando ciò che rimane di una chiesa dopo l’incendio che la devastò: «È ancora una chiesa? I pilastri / Hanno vacillato nella morsa del fuoco. / Gesso annerito ciò che fu fastigio, / Angeli e frutti hanno chiuso i loro occhi. // E deserta la navata. Una statua, / Di santa, seminuda, vi veglia sola. / Anche su di lei s’è prodigato il fuoco. / Fuori, come sempre, la città e il suo brusìo. // Chi dispera, entri qui, è più di un dio / Quest’assoluto che erra nella fiamma. / Fu quasi dell’essere, il vento che prese // Nel calcinarsi d’una luce. / Vi sia caro questo santuario, amici, / ove rischiarano i segni, è quasi l’alba.» (Après le feu / Dopo il fuoco, da Ensemble encore, 2016).

Sì, «ensemble encore»: perché ciò che conta è la comunità dei chiamati, non il luogo che lo accerta.

Carlo Ossola

Carlo Ossola (Torino 1946) è filologo e critico letterario. Socio dell’Accademia dei Lincei e membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, insegna al Collège de France, cattedra di «Letterature moderne dell’Europa neolatina», e dirige l’Istituto di Studi italiani dell’Università della Svizzera Italiana a Lugano. I suoi saggi, in cui la ricerca filologica è sapientemente intrecciata alla storia delle idee, si rivolgono alla cultura rinascimentale come ad autori contemporanei quali Ungaretti e Calvino, dedicandosi anche all’analisi dello spazio letterario e delle figure che lo popolano.

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