URGENTE O ESSENZIALE? CAMBIARE ATTEGGIAMENTO SUGLI ECOREATI

L’urgenza di agire e la necessità di spazi di tempo “adeguati e giusti” per comprendere, meditare e programmare: quello della tutela dell’ambiente costituisce un settore in perenne tensione tra tali opposti poli.
L’emergenza ambientale si è certamente imposta come un fenomeno caratterizzante il nostro tempo. L’onda colorata e pacifica di ragazze e ragazzi scesi nelle piazze a manifestare nel corso dei Fridays for Future, in supporto alle iniziative della giovanissima attivista Greta Thunberg, per reclamare il proprio diritto a un futuro sostenibile su questo pianeta e chiedere azioni concrete contro il cambiamento climatico, costituisce in effetti un salutare richiamo alla consapevolezza di ciascuno di noi, nella misura in cui evidenzia la presa di coscienza ormai diffusa, specialmente nelle nuove generazioni, dell’importanza del valore dell’ambiente e dell’indifferibilità di iniziative concrete volte a proteggerlo.
Per converso, l’eccessiva concentrazione sull’incombenza delle minacce all’ambiente rischia di generare un effetto del tutto distonico, ossia quello di fomentare la “tirannia dell’urgente sull’essenziale”, favorendo quell’evoluzione dell’attività legislativa – già malauguratamente sperimentata su altri terreni – verso logiche improntate al totale asservimento alle esigenze di rassicurazione sociale, attraverso l’approvazione di norme, il più delle volte presidiate da un cospicuo apparato sanzionatorio penale, dettate dall’obiettivo contingente di “presidiare l’emergenza” e fatalmente destinate a individuare capri espiatori ai quali addossare le colpe, piuttosto che ad affrontare autenticamente i complessi problemi che caratterizzano l’attuale società. Un approccio come quello appena delineato ha molto spesso comportato come immediata conseguenza, e non solo nel settore della tutela degli ecosistemi, il completo azzeramento del tempo necessario per individuare e comprendere i problemi reali, analizzare i rischi connessi alle diverse soluzioni prospettabili e infine optare per quelle che, tra le altre, promettono una maggiore razionalità rispetto allo scopo.
Nell’urgenza di dare risposte forti e tempestive alle tante attese di giustizia connesse alle compromissioni ambientali più gravi e alle vittime – presenti e potenziali – dell’irreversibile processo di degradazione degli ecosistemi a cui, come spettatori inermi, tutti noi quotidianamente assistiamo, il legislatore individua spesso nello strumento penale – che costa poco o nulla e si rivela molto suadente dal punto di vista della risonanza mediatica – la panacea alla quale affidare la soluzione ai problemi del nostro tempo: tuttavia, dell’efficacia di risposte punitive spesso vistosamente esibite è davvero più che lecito dubitare.
Proprio nel settore della tutela dell’ambiente si manifesta infatti, con particolare enfasi, quello che è oramai l’effetto di una patologia che coinvolge l’intero sistema penale, ossia il desiderio compulsivo di realizzare, attraverso la minaccia di elevatissime sanzioni, l’osservanza di regole valori ritenuti, in un dato momento storico, di particolare rilievo sociale.
Ci si trova, come espresso da alcune delle voci più autorevoli della dottrina penalistica italiana, in uno stato di «incessante afflusso di nuove incriminazioni, tale da generare il legittimo dubbio che la saturazione di norme rischia di minare quell’effetto d’intimidazione che da esse si attende e di provocare anzi più trasgressione che osservanza. […] Il continuo ricorso alla minaccia della pena pubblica, quasi fosse l’unico modo per presidiare obblighi e divieti, sembra porsi come il portato di una generalizzata reciproca malfidenza e di un progressivo indifferenziarsi dei valori nella coscienza collettiva» (M. Romano, 2017). Si è dunque di fronte a una patologia che si potrebbe definire “sanzionorrea”, un meccanismo di rimozione sociale e istituzionale dei problemi e, conseguentemente, delle soluzioni effettive da apprestare, in ragione della quale «si sanziona e si condanna prima di capire per non dovere (o non riuscire a) capire» (G. Forti, 2018).
Seguendo tale pericoloso crinale il legislatore, con la riforma dei reati contro l’ambiente introdotta con legge n. 68 del 22 maggio 2015, ha inteso punire, con pene tra le più alte dell’intero sistema penalistico, le più gravi compromissioni dell’equilibrio delle matrici ambientali, distaccandosi così dall’ordinario sistema di gestione della questione ambientale “accessorio” rispetto all’azione della Pubblica Amministrazione. Il sistema così (parzialmente) rinnovato si incentra dunque su una tutela ambientale apparentemente forte, strutturata su macro-eventi quali l’inquinamento e il disastro ambientale, rispetto ai quali, tuttavia, non pare possa darsi autenticamente prova né del nesso di causalità materiale tra singola condotta ed evento, né dell’elemento psicologico richiesto dalle norme incriminatrici rispetto agli eventi oggetto di rimprovero penale.
Sulle reali capacità di tale sistema a far si che il valore della tutela degli ecosistemi penetri nella coscienza collettiva, poi, si possono nutrire dubbi ancora maggiori. Dai dati più recenti, raccolti da Legambiente e dal Sistema nazionale di Protezione dell’Ambiente, si evince che le infrazioni alla normativa ambientale accertate nell’intero 2018 sono state 28.137, più di 77 al giorno; 35.104 le persone denunciate e 252 quelle arrestate, mentre il numero dei sequestri ha superato quota 10.000.
Per quanto riguarda l’applicazione della procedura estintiva dei reati ex artt. 318 bis ss. del Testo Unico Ambientale, attraverso l’istituto delle “prescrizioni”, il Sistema Nazionale di Protezione dell’ambiente nel biennio 2017-2018 ha emesso 3139 asseverazioni, con un incremento notevole rispetto al biennio 2015-2016, di prima applicazione della legge, nel quale erano state 1.874.
Quanto invece alle comunicazioni di notizia di reato per i c.d. ecodelitti, queste si attestano a 108, di cui novantatre per il delitto di inquinamento ambientale, due per quello di disastro, una per traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività, tre per la fattispecie di impedimento del controllo e nove per il delitto di omessa bonifica.
Se tali dati potrebbero lasciar pensare alla possibilità di formulare un giudizio tutto sommato positivo sulla legge che ha introdotto gli eco-delitti, in realtà l’arsenale repressivo che tale provvedimento appresta si presenta poco efficace e comunque sproporzionato, rispetto ai risultati di prevenzione concretamente conseguibili, anche perché concentrato su aspetti tutto sommato marginali se messi a confronto con i fenomeni di maggiore dannosità per l’ambiente.
Se ciò che difetta al sistema normativo attualmente vigente è soprattutto l’efficacia nell’orientare le condotte dei reali produttori di rischio nei confronti delle matrici ecologiche, ossia, in primis, gli operatori economici che svolgono attività d’impresa, è evidente come sia ormai indifferibile uno sforzo volto a recuperare autentica razionalità all’azione legislativa, in modo da favorire un reale orientamento delle condotte in una direzione di rispetto dell’ambiente, così da rivolgere l’arma penale esclusivamente nei confronti dei comportamenti che possono essere sensatamente stigmatizzati dall’ordinamento, perché autenticamente offensivi di interessi giuridici meritevoli di tutela e in quanto suscettibili di essere compiutamente provati secondo le regole tipiche del processo penale.
Un simile risultato non dipende affatto, come dovrebbe essere facile comprendere, dal carico sanzionatorio di cui la norma si fa portatrice e, in tal senso, maggiore attenzione dovrà essere prestata dal legislatore, in futuro, nel formulare norme precise, facilmente comprensibili e strutturate in modo da rendere evidenti i valori individuali e collettivi alla cui protezione sono dirette: in particolare, per ciò che attiene alla tutela dell’ambiente, sarà indispensabile rendere maggiormente esplicito, rispetto ad oggi, come essa punti ad assicurare a tutti i consociati la possibilità di beneficiare del valore protetto dal precetto, ossia la preservazione di quelle matrici ecologiche che si connotano come imprescindibili per assicurare la possibilità stessa di una vita futura su questo pianeta.
Si tratta, in definitiva, di un’operazione da condurre principalmente sul piano culturale, ossia su un terreno che, a ben vedere, costituisce la reale emergenza dell’attuale congiuntura storica, che può essere affrontata solo “recuperando del tempo” per conoscere, osservare e mettere in dialogo i diversi saperi indispensabili per elaborare soluzioni effettive e non semplicemente apparenti: sembra questo, oggi, l’unico viatico possibile per garantire quel futuro a gran voce reclamato, nelle piazze di tutto il mondo, dai più giovani.
Francesco D'Alessandro
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