Epitaffio per la barzelletta

Le barzellette non fanno più ridere. Se non ci credete, provate a raccontarne una in pubblico. Noterete espressioni di imbarazzo, sguardi che si chinano sugli smartphone, dita che scorrono alla ricerca di qualcosa che sia davvero divertente: un meme, un trend, una vignetta, magari – alla peggio – un’altra barzelletta, ma illustrata e animata. L’importante è abbreviare i tempi di attesa, arrivare alla battuta il prima possibile. Anche quando ci va di ridere, non abbiamo più tempo da perdere.
Certo, nel mondo accade di peggio, però sull’obsolescenza della barzelletta qualche riflessione è bene spenderla. Erede della “facezia” rinascimentale e anche, per alcuni aspetti, della fiaba esopica, il genere ha caratterizzato una buona parte del Novecento. In ipotesi, si potrebbe suggerire un arco che dal saggio di Sigmund Freud sul Motto di spirito (1905) si estenda fino ad Applausi a scena vuota (2014), il romanzo nel quale l’israeliano David Grossman immagina un disperato tentativo di fuga dal dolore attraverso le barzellette. Non è irrilevante il fatto che sia Freud sia Grossman si collochino nel contesto della cultura ebraica: l’apologo rabbinico è un’altra delle fonti alle quali il repertorio del joke ha lungamente attinto.
Nessuna nostalgia, sia chiaro. E nessun rimpianto. Per un secolo abbondante le barzellette hanno tenuto la scena, riempiendo i teatri di varietà e mettendo in sicurezza i palinsesti televisivi. Con una raccolta di barzellette ci potevi sfornare un bestseller, a patto che a fare da garante ci fosse un personaggio di richiamo come il Francesco Totti dei tempi d’oro. Anche in politica le barzellette rivendicavano una funzione più che legittima: in Unione Sovietica davano voce al dissenso, nell’Italia di Silvio Berlusconi sono state un non marginale strumento di consenso. Un intellettuale rigoroso come Umberto Eco si deliziava nel darne un’interpretazione semiotica e ammetteva – a denti stretti, ma lo ammetteva – che la passione per le barzellette era uno dei pochi elementi che lo accomunavano al Cavaliere.
Era una questione generazionale e non ce ne rendevamo conto. O forse no, forse il declino dei baby boomer c’entra fino a un certo punto e quel che più conta è l’avanzata delle tecnologie, per cui anche la comicità, come qualsiasi altra cosa, è ormai entrata nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Da qui il meme, appunto, da qui il trend e la clip tagliuzzata a beneficio dei social. Espressione dignitosa delle arti applicate, la barzelletta non sfigurava nel maestoso museo del racconto universale. Non poteva ambire ai saloni occupati dai poemi epici e dai romanzi ottocenteschi, però qualche teca in un’ala laterale se la meritava eccome. Di questo, in definitiva, si trattava: di un piccolo congegno narrativo che richiedeva la giusta combinazione di tradizione e talento individuale. Modulazione della voce, mimica, rispetto dei tempi erano requisiti indispensabili, in assenza dei quali la barzelletta collassava su sé stessa. Molti ricorderanno con angoscia il momento in cui il narratore perdeva il filo, diceva no aspetta e poi, sconsolato, ammetteva di aver dimenticato il finale. Perché la forza della barzelletta stava tutta lì, in quella che si chiamerebbe la pointe, vale a dire la clausola, il sigillo, l’agudeza che piombava come un colpo di scena e cambiava il senso della storiella.
In rete, invece, più di pointe è questione di punctum, la componente ineffabile eppure riconoscibilissima che Roland Barthes indicava come costitutiva dell’immagine, e dell’immagine fotografica in particolare. Su questo si fonda il meme: su un fotogramma ben trovato, al quale si combina una battuta che potrà anche variare, ma in fin dei conti sempre quella rimane. In modo del tutto speculare, il trend è la ripetizione di un frammento vocale al quale l’influencer di turno presta volto e fisicità. L’inventiva è ridotta al minimo, l’abilità sta nel replicare con precisione un modello precostituito. Essere tutti originali allo stesso modo è, del resto, l’articolo unico al quale si attiene buona parte della comunicazione digitale. Per essere sé stessi bisogna essere in grado di somigliare a qualcun altro, meglio se con una buona base musicale.
Non che fosse una meraviglia, la belle époque delle barzellette. La grossolanità era in agguato, il pregiudizio serpeggiava e, quando non serpeggiava, imperava. Sia pure in maniera talvolta degradata, era comunque il racconto a rivendicare la sua capacità di fascinazione. Adesso si corre subito al finale («guarda fino in fondo» è l’appello che accompagna molti reel, la cui durata raramente supera il minuto), dopo di che si è liberi di passare ad altro. D’altro canto, anche le barzellette si potevano raccontare a raffica, a costo di stordire il pubblico. Non bisogna nutrire rimpianti, ripetiamolo, non si può indulgere alla nostalgia. Ma di sicuro è difficile abituarsi all’idea che il vecchio intercalare di “la sai l’ultima” vada inteso alla lettera. Che l’ultima barzelletta sia già stata raccontata, insomma, e che per ridere ci si debba arrangiare con il bricolage dell’eterno ritorno.
Alessandro Zaccuri
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