ETICA DELLE MACCHINE

Viviamo tempi in cui il nostro rapporto con le entità artificiali – con ciò che chiamiamo genericamente “macchine” – è sempre più stretto. Non parlo solo di robot antropomorfi, ma soprattutto di sistemi automatizzati, di apparati che aprono mondi virtuali, di dispositivi che si possono integrare con il nostro organismo. Tutto ciò è qualcosa di nuovo. La novità è data dalla crescente autonomia di tali apparati. In molti casi essi sfuggono al nostro controllo. E questo c’inquieta. Anzi: ci fa paura.
Di fronte a ciò è necessario definire non solo la portata della nostra azione, ma anche la nostra interazione con questi dispositivi. È necessario stabilire che cosa è buono e che cosa non lo è, sia nel loro che nel nostro agire. Di questo, fra l’altro, si occupa l’etica delle macchine.
Ma per muoversi in questa direzione bisogna anzitutto diventar consapevoli della specificità dei soggetti coinvolti in queste azioni. Esseri umani e macchine non sono infatti la stessa cosa, anche se si sta imponendo la tendenza a considerarli in maniera indifferenziata. È quasi una tendenza naturale insita nel nostro linguaggio. Siamo spinti infatti a usare per le macchine le stesse parole che usiamo per gli esseri umani. Diciamo che hanno “intelligenza”, che “scelgono”, che addirittura manifestano “empatia”.
Si tratta di una tendenza comprensibile, perché permette di non aggravare i nostri discorsi con complicati distinguo. Ma il risultato è una sorta di antropomorfizzazione. Più precisamente è il fatto che nelle macchine gli esseri umani possono trovare il loro “doppio”: qualcosa in cui specchiarsi e riconoscersi.
Le cose, in realtà, sono più complesse. Le macchine, a volte, costituiscono per noi un paradigma al quale tendere. Altre volte, invece, offrono di noi stessi un’immagine deformata, nella quale non ci riconosciamo affatto e che produce inquietudine. In altri casi, ancora, la loro struttura e il loro funzionamento c’inducono a intervenire sulle nostre disposizioni naturali grazie a ciò che le tecnologie ci mettono a disposizione. Sono ormai lontane, insomma, quelle rappresentazioni amichevoli dei dispositivi artificiali che erano veicolate ad esempio dai film di Walt Disney. Oggi le macchine per noi sono insieme copia e modello.
Due, infatti, sono sostanzialmente i modi in cui può realizzarsi il rapporto speculare tra esseri umani e macchine. Il presupposto di tale rispecchiamento, ripeto, è dato dal fatto che gli esseri umani e le tecnologie sono considerati ormai sullo stesso piano. Possiamo allora, da un lato, essere noi a rappresentare l’unità di misura alla quale i nuovi dispositivi devono uniformarsi: in ricordo dei tempi in cui erano appunto gli esseri umani a costruirli e ad approntarli per i loro scopi. Possiamo, dall’altro lato, trovare in essi quella perfezione che ci manca, e desiderare, sviluppando un tale rapporto, di ottenerla. Utilizzando gli argomenti di un filosofo ottocentesco, Ludwig Feuerbach, potremmo dire che è in atto qui un processo di alienazione di caratteristiche umane e di proiezione di esse in qualcosa d’altro: non più ai fini della costruzione di un’immagine del divino, come in Feuerbach, ma per l’attribuzione di un valore alle macchine.
In ciò vi è un’illusione dalla quale dobbiamo guardarci. Se infatti consideriamo le macchine come simili a noi, le trasformiamo in nostri concorrenti e ci veniamo a trovare nella condizione di temere di essere espropriati da quello che siamo. A questo siamo indotti, come dicevo, dall’uso del nostro stesso linguaggio. Se poi verifichiamo che le entità artificiali sono più veloci ed efficienti degli esseri umani, allora pensiamo a noi stessi, per dirla con Cartesio, solo come a degli “automi imperfetti”. E siamo dunque pronti o a rinunciare alla nostra umanità, entrando nella dimensione del post-umano, o a sottometterci, in una sorta di “servitù volontaria” (de la Boëtie) al nuovo ordine tecnologico.
Ecco perché un’etica delle macchine, cioè un’etica dell’interazione con esse, è oggi sempre più necessaria: per rapportarci alle macchine – e, attraverso questo rapporto, anche a noi stessi – in maniera corretta e buona. Si tratta di comprendere le affinità che rendono possibile tale rapporto, ma anche le differenze fra i termini in gioco, senza le quali il rapporto non sarebbe possibile. Solo grazie a questa comprensione, infatti, può essere definito lo sfondo al cui interno affrontare il problema-chiave del nostro agire nell’età tecnologica: il problema della responsabilità.
Adriano Fabris
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