FOTO DI GUERRA, FOTO DI FAMIGLIA. Il dolore dei bambini ci scava dentro
di Fausto Colombo
All’inizio di novembre, il New York Times ha pubblicato una struggente serie di foto di Tyler Hicks, uno dei grandi fotoreporter contemporanei, dedicate alle conseguenze della guerra nello Yemen sulla popolazione locale.
Una foto in particolare ha colpito e emozionato l’opinione pubblica: quella di Amal, una bambina di sette anni ritratta da Hicks in condizioni di estrema denutrizione. Poco tempo dopo la pubblicazione delle immagini, la famiglia della piccola ne ha annunciato la morte.
Si tratta dell’ennesima fotografia che ha per oggetto il dolore infantile. Di recente (era aprile), hanno fatto discutere le immagini dei bambini morti per un attacco di gas a Douma, in Siria. Sono passati poco più di tre anni dallo shock planetario provocato dal corpicino di Alan Kurdi, annegato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, dopo il naufragio del gommone su cui viaggiava con la sua famiglia. Proseguendo a ritroso, le struggenti immagini di Kevin Carter sulla carestia somala, quelle di James Nachtwey su una delle crisi sudanesi (tutte della prima metà degli anni Novanta), e prima ancora i reportage sulla guerra del Biafra negli anni Sessanta hanno parlato all’opinione pubblica evocando conflitti, carestie o migrazioni altrimenti dimenticati, suscitando scandalo e provocando reazioni di solidarietà su larga scala, ma anche dubbi sulla legittimità etica di mostrare “il dolore degli altri”, per citare Susan Sontag, che accusava la fotografia di provocare emozioni di breve periodo, ma di non suscitare alcuna autentica ribellione morale, se non in pochi, estremi casi.Secondo alcuni, le foto che rappresentano il dolore dei bambini appartengono a una strategia che si avvale della sofferenza infantile per costruire una sorta di ricatto morale verso l’Occidente, ponendolo davanti alle conseguenze della propria politica coloniale e post-coloniale, e del proprio egoismo politico. I più radicali sostenitori della tesi si spingono a suggerire più o meno esplicitamente che questa strategia retorica porti vantaggio soprattutto a quei soggetti – le Organizzazioni Non Governative – che giustificano la propria esistenza soltanto in ragione delle grandi crisi. Vi è chi ricorda che spesso i regimi totalitari di alcuni dei Paesi colpiti si avvantaggiano della generosità dei sostenitori delle campagne solidali, sequestrando e trattenendo gli aiuti e lasciando le popolazioni alla loro miseria e fame. Oggi questa corrente di pensiero sembra trovare nuovo vigore in frange dell’opinione pubblica sempre più sospettosa nei confronti del riconoscimento umanitario. Come ha scritto il filosofo Richard Rorty, la maggior parte delle persone sembra sentirsi moralmente offesa dalla proposta di trattare un estraneo come un fratello, o un nero come un bianco, un omosessuale come un eterosessuale, un credente in una altra fede alla stregua di un credente nella propria. Non è un caso dunque che la fotografia umanitaria sia contestata, oggi, anche con il ricorso all’armamentario tipico dei social media, come l’hate speech e le fake news. Così l’immagine struggente di Josefa, la donna salvata all’ultimo istante dall’annegamento dai volontari di Open Arms lo scorso luglio, fu ridicolizzata attraverso un’altra foto che la mostrava con le unghie smaltate qualche giorno dopo. Poco importa che quello smalto si dovesse alla cura di alcune soccorritrici, che avevano cercato in quel modo di distrarre la donna dall’immensa paura che continuava ad attanagliarla. L’importante era ridurre, sminuire lo svelamento del dolore degli altri e il suo impatto emotivo.
Questa visione negativa del ruolo dell’immagine del dolore non satura tutta la gamma dei suoi significati e delle sue potenzialità. Negli ultimi anni, l’approccio teorico al ruolo sociale della fotografia giornalistica è andato cambiando. Un numero crescente di studiosi rivendica oggi il ruolo cruciale che il fotoreportage svolge nel far prendere coscienza non soltanto di questa o di quella emergenza, ma più in generale di una comune appartenenza di tutti i cittadini del mondo alla medesima comunità di destino. È qui che l’immagine fotografica incontra la scoperta dei diritti umani, questa rivoluzione nata da due grandi conflitti mondiali ed entrata a far parte della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite: è più facile accorgersi dell’altro, del diverso e del lontano, proprio quando lo si scopre simile a noi nel dolore e nella sofferenza e quindi disarmato, infelice, innocente (nel senso etimologico del non saper nuocere). Fotografie anche dure, scioccanti ed emotivamente molto coinvolgenti possono portarci a una cruciale e dolorosa consapevolezza, capace di orientare le nostre scelte in una nuova direzione di solidarietà e condivisione.
Vale dunque la pena di ribadire il ruolo disvelatore di certe immagini. Davanti all’onda del rifiuto di esse e dei valori universali che presuppongono, vale la pena di scattare, pubblicare, diffondere e proteggere con la memoria foto come quelle di cui abbiamo parlato. Esse ci ricordano che il male non è soltanto fuori e lontano da noi. Non ci assedia dietro i muri sempre più alti che costruiamo attorno alle nostre città. È invece soprattutto capace di scavarci dentro, di renderci meno umani. La visione del dolore non è sufficiente ad aprirci il cuore, ma rimane una porta aperta che la nostra coscienza può decidere, prima o poi, di attraversare.
Fausto Colombo
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