FRATELLI PER DAVVERO
di Eraldo Affinati
Temo le parole che possono non corrispondere alla realtà. Questo lo so dal tempo in cui ho cominciato a scrivere e insegnare, ma da quando conosco i profughi che arrivano in Europa e devono raccontare la loro storia, tale convinzione ha assunto una consapevolezza nuova. Ai miei occhi non si tratta più di un’arguzia intellettuale, fra le tante elaborate dalla cultura novecentesca. E’ diventata carne viva.
I nostri dannati della Terra (ogni generazione ha i suoi) sono chiamati a spiegare prima al poliziotto, poi all’educatore, infine a chi, in un modo o nell’altro, li accoglie, le avventure trascorse. E ogni volta, paradossalmente, conquistano una maggiore distanza rispetto a quello che hanno visto e vissuto. La dimensione verbale del Paese in cui si trovano li spinge ad assimilare una convenzione narrativa che traduce l’esperienza, sì, ma non la incarna. La conseguenza per loro può essere la solitudine espressiva: un problema da consegnare ai figli. Per chi li accoglie rappresenta uno scacco: clicchiamo sui video delle principali emittenti che riportano in tempo reale le testimonianze dello schiavismo contemporaneo in Libia, una pelle morta italiana pensando a “Tripoli, bel suol d’amore” e, nel momento in cui li vediamo sullo schermo del computer ci allontaniamo sempre di più dai nuclei incandescenti della verità: quelli che bruciano. I migranti trovano riparo nella crosta della ferita: continuano a ripetere la stessa vicenda lasciando a noi il suo simulacro.
Vorrei provare a decifrare la mia emozione quando saluto i ragazzi che sfilano davanti ai banchi della scuola dove insegniamo la lingua italiana in un rapporto uno a uno: dovrebbero presentarsi alle tre del pomeriggio ma arrivano sgranati anche un’ora e mezza dopo. Il volontario registra il nome di ognuno e consegna il cartellino plastificato indirizzando l’allievo verso il docente.
Ciao Mohamed! Ti vorrei considerare per ciò che realmente sei: sopravvissuto alla povertà, alla fame, alla miseria, alla tortura, alla prigionia, ai colpi d’arma da fuoco, agli stupri, agli inganni, ai tradimenti, alle mortificazioni, perfino al cannibalismo, e poi al naufragio, alle malattie, al freddo, al razzismo, all’insulto, all’incomprensione, al vuoto, alla noia, all’inedia, alla mancanza della famiglia, della lingua nativa, della cultura, della libertà, della democrazia.
Appena incrocio il tuo sguardo, resto frastornato dal sorriso che, inusitata meraviglia, mi regali: dove l’avevi nascosto, mi chiedo, e come hai fatto a conservarlo così integro, sfolgorante, potente, inappellabile, indiscutibile, in mezzo alle povere masserizie che sei riuscito a portare in salvo? Un dono inaspettato, imprevedibile, sorprendente. Denti bianchi sulla pelle nera. Occhi accesi verso il futuro.
La parola “fraternità” è stata occupata militarmente da retoriche fuorvianti che quasi ci impediscono di pronunciarla. Adesso anche noi, come questi pellegrini reduci da vicissitudini tali da far impallidire persino quelle descritte da Edgar Allan Poe nel suo Gordon Pym, dobbiamo lavorare per recuperarla nella sua forza originaria. Non ci dobbiamo accontentare di ciò che apprendiamo per via indiretta. Oggi più che mai è necessario verificare di persona. Come facevano i reporter di una volta. Non c’è bisogno di andare in Africa. Basta uscire dal supermercato e guardare in faccia il nigeriano con la mano tesa.
Eraldo Affinati
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