GIORNALISMO CIVILE E BENE COMUNE

La quarta edizione del Festival dell’economia civile a Firenze e la nuova sessione di “The Economy of Francesco” ad Assisi hanno rilanciato, nel settembre scorso, l’esigenza di ripensare dalle fondamenta l’attuale modello economico capitalista. In entrambe le occasioni, è stata additata l’economia civile come percorso alternativo possibile, già in atto, capace di coniugare fra loro - in modo innovativo e virtuoso - persone, mercato, Stato e ambiente. Ma come diffondere la conoscenza dell’economia civile e promuoverne la pratica? Investendo, come operatori dell’informazione e come pubblico, sul “giornalismo civile”.
1. L’assunto di fondo del giornalismo civile è che il destinatario vada considerato, in primis, come cittadino e non (solo) cliente. Oggi siamo davanti a due modalità di informazione profondamente diverse. Da un lato, c’è chi, cercando di documentare onestamente la realtà, serve la collettivitàe contribuisce ad alimentare un sano dibattito delle idee. Dall’altro lato, assistiamo a un giornalismo che, puntando sulla semplificazione e sull’eccessiva spettacolarizzazione, è più preoccupato di ottenere audience e profitti che di informare correttamente e generare benessere sociale. Nel primo caso il sistema dell’informazione si fa carico della società e della qualità delle relazioni che l’informazione contribuisce a determinare; nel secondo, invece, la relazione tra giornalisti, editori e pubblico si risolve nella mera fornitura di un generico servizio a fronte del pagamento di tale bene. Non è mia intenzione proporre un approccio manicheo, ad esempio esaltando il cosiddetto “giornalismo sociale” vs. il “giornalismo mainstream”. Ottimi esempi di giornalismo civile si trovano in diverse testate vendute in edicola piuttosto che in prodotti radiofonici o televisivi, accanto a contenuti di ben altro valore e livello. Grano e loglio crescono insieme. Spesso anche all’interno delle medesime testate.
2. Dal momento che assume come unità di misura il bene comune, il giornalismo civile tiene in costante dialogo l’io e il noi, anche nel panorama mediatico attuale, caratterizzato dalla capillare presenza dei social. Se vuole interpretare al meglio la sua funzione sociale, oggi il giornalista non può adottare uno schema novecentesco nel quale la sua professionalità e la sua mission consistono meramente nel colmare, in maniera unidirezionale, un “vuoto informativo”. Oggi tutti siamo “prosumer”, ovvero consumatori di notizie ma, al tempo stesso, produttori di post, messaggi, commenti. Il punto, quindi, consiste nel creare un dialogo costante, una relazione forte e di fiducia (basata sulla professionalità), fra giornalista e pubblico.
In altre parole: al giornalismo civile sta a cuore non soltanto offrire ai cittadini gli strumenti per orientarsi nella realtà, i dati necessari a «conoscere per deliberare», ma anche la qualità finale delle relazioni che si creano una volta divulgata l’informazione. Nell’economia civile uno dei cardini è il “mutuo vantaggio”. Quanti si ispirano al giornalismo civile considerano come “vantaggio” non solo il profitto economico derivante dalla produzione e diffusione delle news, bensì il mutamento sociale, in termini di relazioni, che si viene a produrre. L’informazione che si rifà al modello “civile” vuol essere “generativa” e si preoccupa di tutti gli stakeholder in gioco, come l’imprenditore civile si dà cura dell’impatto ambientale del suo operato. Pertanto, l’hate speech e qualsiasi forma di discorso pubblico venato di odio, razzismo e violenza non possono trovare qui cittadinanza.
3. Il giornalismo civile si propone come antidoto al “disordine informativo”del quale facciamo esperienza quotidianamente. Siamo ormai a livelli talmente sistemici di fake news che è in gioco la qualità stessa della democrazia (vedi i casi Brexit, elezione di Trump nel 2016 e, oggi, propaganda russa sulla guerra in Ucraina). Ma c’è un altro virus che minaccia la qualità dell’informazione oggi ed è la trasformazione dei media in “partiti/squadre” e dei fruitori di news in “tifosi”. Quando il giornalismo non vigila sul linguaggio che adotta e sull’impatto sociale che genera, il rischio è che si creino accese fazioni tra i cittadini, senza più margini di dialogo fra chi ha opinioni diverse. Come si risponde a questa emergenza? Non vedo altra via d’uscita che rinnovare il patto di fiducia tra chi fa informazione e il pubblico. Risulterà molto più credibile l’informazione di chi tratta il destinatario come persona e come cittadino (con i suoi diritti e doveri) e non come semplice terminale di un’operazione economica, di un do-ut-des qualsiasi, o come qualcuno a cui strappare un like.
4. Forse una strada perché i media recuperino un po’ della credibilità perduta potrebbe consistere in una riflessione approfondita sul rapporto tra “nuovo” e “rilevante”, tra ciò che devia dall’ordinario (il “novum”, lo strappo alla regola) e ciò che è importante che il cittadino sappia per esercitare consapevolmente le scelte che riguardano la sua vita quotidiana. Il tema richiederebbe ben altro approfondimento, ma qui basterà ipotizzare che solo se l’informazione restituirà al cittadino il primato dell’attenzione al bene comune invece che alla ricerca del sensazionale forse potrà risalire, seppur faticosamente, la china attuale, recuperando la credibilità perduta.
5. Un altro nodo sul quale si gioca la relazione giornalisti-pubblico oggi è, a mio avviso, il rapporto fra bad e good news. Quanto il racconto dei mali del mondo è strumentale alla ricerca di audience e quanto invece obbedisce alla volontà di denunciare ciò che non funziona? Una recente ricerca, post-Covid 19, pubblicata dal Reuters Institute for the Study of Journalism, ha indagato il fenomeno globale, in allarmante crescita, che gli esperti chiamano “news avoidance”. Ebbene: alla domanda sui motivi principali alla base della fuga dalle notizie, la maggior parte di chi le evita sempre o spesso (66%) ha risposto che vuole evitare stress e malumore. A chi fa giornalismo civile importa molto vigilare sul fatto che un eccesso di notizie negative, a fronte di un legittimo senso di indignazione, possa generare, alla lunga, un sentimento di sfiducia, di rassegnazione e impotenza. Se così accadesse, l’informazione diventerebbe un boomerang. Fortunatamente, ci sono molte persone convinte che si debba «lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato». Alcune di esse sono state influenzate positivamente dai media che hanno utilizzato. Questa, almeno, è la convinzione che mi son fatto con l’esperienza di direttore del mensile del Pime “Mondo e missione”.
6. II giornalismo civile non può che essere, anche, “giornalismo di servizio”, capace di fare divulgazione “alta”, cogliendo bisogni e interessi dei lettori prima ancora di puntare a veicolare, dietro la presunta maschera del “giornalismo di opinione”, tesi preconfezionate o schemi velatamente ideologici.Se già un racconto onesto e veritiero dei fatti costituisce un insostituibile contributo, mi piace pensare a un giornalismo tridimensionale, che abbia anche il coraggio di “fare memoria” e, contemporaneamente, di affacciarsi sul domani. Per essere davvero civile (e far sì che il pubblico torni a considerarlo “utile”) dovrebbe sempre di più interrogarsi su ciò che avverrà, domani e fors’anche dopodomani. Mai come oggi è chiesto, ai giornalisti, di adottareun “pensiero-cattedrale”, che superi l’immediato.
7. In uno degli incontri dei giornalisti a Capodarco, promossi da Redattore Sociale, ci venne distribuita la tessera NIP (Not Important Person): un’idea semplice e geniale per ricordare che il “giornalismo sociale” ha a cuore in particolare la condizione delle persone più deboli e vulnerabili. Ebbene: leNIP non possono non essere interlocutori (e non solo oggetto) del giornalismo civile, che si rivolge potenzialmente a tutti, nessuno escluso. Importante riaffermarlo, in presenza di un giornalismo troppo spesso incollato ai “soliti noti” e che talvolta propone contenuti comprensibili solo a chi ha una doppia laurea.
8. Dal momento che fa riferimento a un modello economico per il quale il profitto non è l’unico né l’ultimo parametro, il giornalismo civile non identifica il livello di benessere con il miglioramento del PIL. Benché la letteratura accademica da tempo abbia dimostrato la totale inadeguatezza di questo indicatore, giornali e Tv vi ricorrono sistematicamente. Eppure, l’Italia, a partire dal 2010, si è data nuovi parametri per misurare, sulla base di un indice sviluppato da Istat e CNEL, il Benessere equo e sostenibile (BES). Come giornalisti, non rendiamo un servizio al pubblico se perseveriamo a idolatrare il dio-PIL, anziché usare il BES. Vino nuovo in otri nuovi.
9. Il modello antropologico cui fa riferimento il giornalismo civile si rifà ai medesimi principi-cardine dell’economia civile. Come questa muove da una visione antitetica all’homo homini lupus di hobbesiana memoria, anche il giornalismo civile preferisce scommettere sul positivo. Senza dimenticare che il male esiste e, in primis, alberga nel cuore di ciascuno. Da questo punto di vista, il giornalismo civile, ad esempio, nel trattare le questioni ambientali, non adotterà uno stile che confina con il terrorismo psicologico, quand’anche condotto a fin di bene.
10. «Questa economia uccide», ripete Papa Francesco. Uccide (o rischia di farlo) anche il miglior giornalismo, aggiungo io. È tempo di una rivoluzione: urge una rinnovata alleanza tra editori, giornalisti e pubblico, un ripensamento profondo dei modelli di business dell’industria giornalistica, delle modalità di aiuti dello Stato al mondo dell’informazione, ma anche delle abitudini di fruizione da parte della gente. Il pubblico, infatti, gioca un ruolo fondamentale perché “vota con il portafoglio”. Da anni una fetta sempre più consistente di persone sono disposte a pagare di più pur di consumare cibi “bio”, sani e buoni. Perché una conversione del genere non dovrebbe essere possibile anche per l’uso dei media?
Gerolamo Fazzini
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