Gli strati del Cremlino e la religione della vittoria
di Georges Nivat
Molti si chiedono se l’attuale Russia sia il prolungamento o meno dell’ex Unione Sovietica. Nel tempo, ormai lontano, della perestrojka, alcuni conclusero sbrigativamente che l’Urss era finita ed erano infastiditi dal fatto che la gente continuasse a parlare dei gulag – che senso aveva questo ricordo? Il gulag e il suo “arcipelago” erano finiti, residui del passato. Tuttavia Svetlana Aleksievic, in The End of the Red Man del 2013 (tr.it. Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il comunismo, Bompiani 2014), e altri hanno riscoperto l’“homo sovieticus” di ieri sotto il “cittadino” di oggi. Che pensarne?
Il periodo sovietico ha lasciato dietro di sé diversi strati. Possiamo, a grandi linee, contarne tre: l’ultimo che per semplificare chiameremo brezneviano, era un dispotismo addolcito, mezzo moribondo, anche se ancora capace di iniziare una catastrofica “guerra di liberazione” in Afghanistan. Restano i primi due, quelli che hanno lasciato tracce indelebili – come, già prima, la servitù della gleba, stabilita nel XVI secolo e notevolmente ampliata da Caterina la Grande, specialmente in Ucraina. Così l’amica dei filosofi, il modello del despota illuminato, fu anche una schiavista.
Il primo strato è il progetto di Lenin. Per Lenin, l’importante era soprattutto sconfiggere i borghesi e i loro alleati socialisti moderati: la sua decisione più sorprendente fu quella di adottare il disfattismo estremo nella prima guerra mondiale già nell’agosto del 1914, mentre in Russia si scatenò una breve isteria antitedesca – che produsse persino alcune poesie firmate da Vladimir Majakovskij. Il disfattismo fanatico di Lenin lasciò perplessi molti bolscevichi, specialmente quelli che rimasero all’interno dell’impero. Dopo di ciò, si trattò di vincere la guerra civile a tutti i costi, vittoria resa possibile grazie a Trockij, con il suo treno blindato. Ci vollero tre anni, dal 1918 al 1921, con la rivolta contadina di Tambov. Da entrambe le parti, il carburante di questa guerra civile era il fanatismo – non cerchiamo di minimizzare la fede bolscevica, di cui il normalien Pierre Pascal è un buon esempio: ufficiale francese, scelse nel 1918 di rimanere in Russia, fondò il gruppo comunista francese a Mosca, lavorò per l’Internazionale e vide nel comunismo russo un ritorno alla prima comunità cristiana di Gerusalemme, egualitario e collettivista.
Questa fede è stata la forza trainante di una crudeltà che dilagò da entrambe le parti, e la cosa principale è il risultato. Cedere l’Ucraina nel trattato di pace separato tra Russia rossa e le potenze dell’Asse, il 3 marzo 1918, non fu un problema per Lenin. Tutte le famiglie erano divise: Leonid Leonov, Boris Pilniak, tutta la letteratura sovietica degli anni 1920 racconta la storia di questa spaccatura tra fratelli nemici; i vinti possono e devono sopravvivere solo con l’intima accettazione della sconfitta, come ne I vinti, di Irina Golovkina. L’intimo radicarsi della guerra era presente in tutti. Andrej Platonov, l’autore di Chevengour, ne ha fatto l’illustrazione più straordinaria, mescolando intimamente utopismo anarchico e crudeltà.
Secondo livello, il progetto di Stalin: era quello della “adduzione forzata” di questi due torrenti. Non c’era bisogno di esibire la guerra civile e le sue crudeltà: era diventata subliminale, annidata in tutti. I movimenti apparenti del pendolo – la ritirata tattica della dekulakizzazione, poi il ritorno di nuovo al terrore casuale – punteggiavano il cuore di questo terrore interiorizzato, che non escludeva in alcun modo la fede, una fede che non deve essere minimizzata.
Facciamo un esempio della sorprendente differenza tra questi due progetti. La carestia che infuriò nel 1921-1922 lungo il corso del Volga non fu nascosta e i quaccheri americani furono in grado, con l’approvazione di Lenin, di fornire pubblicamente aiuti che salvarono milioni di vite umane. Dieci anni dopo, la carestia del 1932-1933 in Ucraina rimase totalmente invisibile. Persino l’ostinato Boris Souvarine non riuscì a raccogliere prove. Questa carestia, deliberatamente organizzata per esportare grano ucraino in cambio di valuta estera, e che gli ucraini chiamano Holodomor, ha ancora i suoi “famino-scettici” [famine è carestia in francese], se posso dir così. Inoltre, questo “famino-scetticismo” riguarda ormai le due carestie: ad esempio, del notevole documentario di Tatiana Sorokin e Alexander Arkhangelski, The Famine, uscito nel 2021 e che mostra la carestia del 1921 e il salvataggio organizzato dai quaccheri americani, è vietata ogni proiezione pubblica in Russia. Così si finisce per sostenere, e per credere, che no, mai, c’è stata davvero la carestia, e che l’Occidente non ha mai aiutato la Russia...
Negli anni leniniani si sognava di forgiare un “uomo nuovo”; negli anni stalinisti, si trattava di molto di più: un “nuovo pianeta”. Anche i più lucidi oppositori di Stalin lo videro, come Osip Mandelstam nell’Inno a Stalin (che rimase inedito, e il suo autore fu deportato). Sergei Eisenstein voleva fare un film sul culto della denuncia, ispirato al caso del piccolo Pavlik Morozov, delatore del padre; ma non c’era altro padre che il Padre del popolo e il film fu vietato. Aggiungiamo che, se i sabotatori erano ovunque, il realismo socialista ha fatto sparire il “cattivo”. La menzogna non era più una menzogna ma la chiaroveggenza del futuro, vero sciamanesimo collettivo.
Di questi due strati il Cremlino di oggi conserva più o meno l’impronta: il primato della vittoria “interna” è improntato al progetto leniniano (pur rifiutando Lenin); l’“adduzione dei popoli” si richiama al progetto stalinista.
Il “progetto sovietico”, prima o seconda variante, non ha mai rinunciato al millenarismo, anche se lo ha applicato torturando e fucilando. Questa ambizione è ormai scomparsa, non ha più senso: la Russia ufficiale di oggi, e l’opinione che la segue, non ha altro che disprezzo per l’“universalismo”. Tutto ciò che rimane è la religione della vittoria. Su quale nemico – “nemico di classe” come nel progetto leniniano, “nemico del popolo” come nel progetto stalinista, “Ucraina nazista”, come nel febbraio 2022, “Occidente degenerato” come oggi – non importa!
«Senza un nemico, non c’è più Russia», disse Ivan Ilyin, espulso dalla Russia sovietica sulla “nave dei filosofi” nel 1922, e una delle letture preferite dell’attuale padrone del Cremlino. Il nemico può cambiare – l’essenziale è che ce ne sia uno.
Georges Nivat
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