Il centenario degli antimoderni

Cent’anni fa, nel 1922, moriva Giovanni Verga e nascevano Pier Paolo Pasolini e Luciano Bianciardi. Per quanto non sia evidente il collegamento fra loro, per ragioni sia cronologiche che geografiche, esiste un minimo comune denominatore: il rapporto conflittuale con il tema del moderno. Verga lo sviluppa obbedendo a una logica che confligge con la nozione di Storia fino al punto da assumere una prospettiva a-storica, dove cioè i mutamenti politici ed economici di cui egli è stato testimone – il processo di unificazione nazionale conclusosi nel 1861 e l’avvio dell’industrializzazione – sono interpretati quali elementi nocivi agli equilibri di quella parte di umanità su cui si focalizza la sua attenzione di scrittore. «Questo racconto» – scrive il 19 gennaio 1881 a congedo dei Malavoglia – «è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere, e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio».
L'anticanone risorgimentale
Siamo nel teorema dell’immobilismo meridionale: il miraggio del benessere diventa causa di degenerazione personale e familiare, per cui conviene accettare il destino e non tentare alcuna altra sorte. Verga raffigura un Meridione incapace di reagire al fatalismo, rallentato nella lotta darwiniana per la conquista di una migliore posizione nella scala sociale e ciò fissa l’identità di un’Italia minore, condannata a non trovare nei territori della Storia le risorse morali e materiali per redimersi dalla condizione di subalternità. L’interpretazione verghiana non soltanto diventa chiave di lettura dell’intera questione meridionale, ma rischia di trasformarsi in letteratura di maniera, destinata a fare proseliti nella nutrita compagine siciliana che dai Viceré di Federico De Roberto (1894) arriva al Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo (1976), passando attraverso I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello (1913), Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia (1958), Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958): il cosiddetto anticanone risorgimentale, da cui fuoriesce il solo Elio Vittorini, il più antisiciliano tra gli scrittori siciliani. Come ciò sia stato possibile è materia di cui ho provato a dare le ragioni in un saggio uscito per l’editore Rubbettino e intitolato La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli (2021). C’è un dato però assai eloquente: nel momento in cui Verga si accingeva a scrivere le sue opere migliori, respirava il clima – non si sa quanto utilmente – di quella stessa Milano che nel 1881 celebrava la propria identità di “capitale morale” organizzando, dal 1° maggio al 1° novembre, la prima grande esposizione industriale di una nazione nata appena una ventina d’anni prima.
Questa sorta di avversione alla modernità non appare dissimile osservando le reazioni di Pasolini e Bianciardi, autori perfettamente inseriti in quella schiera di intellettuali che Umberto Eco avrebbe denominato “apocalittici” nel celebre saggio del 1964 e, poco dopo, per quali Giancarlo Ferretti, quattro anni dopo Apocalittici e integrati, avrebbe coniato l’etichetta di “letteratura del rifiuto” (1968). Sia Eco che Ferretti avevano ben chiaro l’atteggiamento corrosivo esercitato nei confronti della modernità che proprio nel contesto degli anni Sessanta assumeva ben altre epifanie rispetto al tempo di Verga e coincideva con il passaggio da un’Italia agricola a un’Italia industriale con il consequenziale affermarsi della società di massa, totalmente prigioniera dello sviluppo tecnologico e del moltiplicarsi dei consumi. Sono perfettamente note le reazioni di entrambi nei confronti delle trasformazioni in atto durante il boom economico.
Pasolini e Bianciardi
In Pasolini, di fatto, coincidono con la ricerca di “paese innocente”, che assume la fisionomia tanto dell’idioma friulano-romanesco, di gran lunga preferito all’italiano televisivo, quanto dell’epica premoderna che racconta un’Italia rurale e incontaminata, sopravvissuta all’avanzare del progresso coltivando la dimensione della marginalità che appartiene alle periferie del suburbio o alle aree interne della dorsale appenninica.
Con altre forme ma identico risultato, Bianciardi manifesta la propria antimodernità attraverso il furore distruttivo con cui il protagonista della Vita agra (1962) combatte la propria, personale battaglia contro i caratteri di una Milano efficiente e iperproduttiva. In lui non soltanto si azzera qualsiasi percezione del mito del progresso, ma si evidenzia il dissenso più violento, che sfocia in una tanto folle quanto dissacratoria distopia, definita «neocapitalismo a sfondo disattivistico e copulatorio». Mentre in Verga la sfiducia nel progresso affonda nei retaggi di una tradizione storico-antropologica, in Pasolini e in Bianciardi interferisce con il sostrato ideologico-politico che ha nutrito di contraddizioni e di paradossi il cuore di un Novecento, nato come il secolo della modernità e passato invece alla storia, almeno in Italia, come il periodo di maggiore conflittualità nei confronti del moderno. Quanto sia ancora valido il loro magistero è un argomento su cui occorrerebbe riflettere. Al contrario di quanto comunemente si creda, un sentimento antimoderno resta vivo e diffuso nell’immaginario culturale e morale del nostro tempo, dove le macchine assumono spesso la fisionomia dei mostri e la tanto vagheggiata “età dell’oro”, con le sue sirene d’arcadia ancora in azione, con le false promesse di mondi incontaminati, rappresenta ancora una dei miraggi a cui erroneamente le multinazionali attingono per allargare i propri mercati.
Giuseppe Lupo
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