IL "MODELLO" DEL CRISTO RISORTO DI PIERO DELLA FRANCESCA

Attorno al 1460 Piero della Francesca realizza a Sansepolcro, sua città natale, uno dei suoi più straordinari capolavori: la Resurrezione. Ma sessant’anni prima, allo scoccare del XV secolo, quella mirabile opera sembra essere “anticipata” in una preziosa miniatura di uno dei codici più belli e più importanti della tradizione ambrosiana, quel Messale di Santa Tecla attribuito ad Anovelo da Imbonate e conservato presso la Biblioteca Capitolare del Duomo di Milano... Un’esagerazione? Forse, ma non del tutto.
Se infatti osserviamo attentamente le due opere, il grande affresco del maestro toscano e la preziosa decorazione del miniatore milanese, mettendole a confronto possiamo scoprire, sorprendentemente, diverse affinità e alcune coincidenze. In entrambi i casi, ad esempio, Cristo si leva trionfante dal sepolcro: e non si tratta, si badi, di una “generica” raffigurazione di questo particolare soggetto, ma della stessa, medesima rappresentazione, dove, in modo pressoché sovrapponibile, il Risorto s’innalza al centro della tomba appoggiando il piede sinistro sul bordo del sarcofago, in quell’identico gesto cioè che è forse il più caratterizzante e il più riconoscibile del dipinto di Piero della Francesca. Sarcofago, come si buon ben notare, che è anch’esso assai simile nelle due immagini, apparendo, nell’una e nell’altra, marmoreo, squadrato, con una pronunciata cornice aggettante e con una campitura centrale.
Come da tradizione, Cristo risorto regge il vessillo con croce rossa in campo bianco, simbolo del suo trionfo sulla morte, sorta di divino orifiamma: in Piero lo stendardo è retto con la mano destra, mentre nel messale ambrosiano è tenuto con la sinistra, poiché il Salvatore è raffigurato benedicente. Le analogie fra le due composizioni, tuttavia, ritornano immediatamente quando si considerano i soldati addormentati e inermi attorno al sepolcro, che sono in numero di quattro, di cui tre calzano l’elmo, uno invece è a capo scoperto: a Sansepolcro come nella Biblioteca della cattedrale di Milano.
Ritto così in piedi, in un atteggiamento che esprime anche letteralmente il significato della parola “risurrezione” e con una verticalità che si contrappone potentemente all’andamento orizzontale della tomba, Cristo appare circondato da una natura rigogliosa, il cui risveglio pare voler sottolineare il concetto stesso di rinascita e di ritorno alla vita.
Piero della Francesca evidenzia questo passaggio mostrando alberi più spogli, quasi secchi, nella parte sinistra e altri più giovani e verdi sulla destra. Il miniatore milanese, invece, pare voler richiamare più l’idea del giardino in cui il sepolcro si trova (come ricorda il vangelo di Giovanni), anche per “ambientare” la scena seguente, inserita nella sezione inferiore del capolettera, con l’incontro fra Gesù e la Maddalena. Rimane la suggestione, inoltre, soprattutto nel Messale di Santa Tecla, che questo giardino voglia evocare anche l’Eden ritrovato (con quelle due piante che rimandano all’albero della vita e all’albero della conoscenza), mostrandoci così Cristo risorto come il nuovo e ultimo Adamo, secondo il magistero di san Paolo.
Ma il punto di maggior contatto fra le due raffigurazioni consiste forse in quell’insolito, splendido manto di color rosa che avvolge il Risorto. “Insolito” perché ci è forse più familiare, in simili scene dipinte, la veste bianca (come in Giotto nella Cappella degli Scrovegni) o il telo rosso (come in tanta parte della pittura fiamminga, e non solo). Ma questo drappo rosaceo, azzardiamo, si pone proprio come “sintesi” e come “trasfigurazione” del manto scarlatto della Passione unito allo sfolgorio della Resurrezione, in un’invenzione straordinaria di cui la miniatura ambrosiana è, a nostra conoscenza, proprio l’esempio più antico, e che trova la sua massima espressione esattamente nel capolavoro di Sansepolcro.
Come si diceva, il Messale ambrosiano di Santa Tecla, databile con una certa precisione al 1402, è opera di eccezionale importanza, storica e artistica, vanto di quello scrigno di tesori che è la Biblioteca del Capitolo del Duomo di Milano, e il cui valore era già ben evidente al tempo della sua realizzazione, se si considera che gi autori di questa meraviglia furono ricompensati con 116 ducati d’oro (raccolti anche attraverso una “sottoscrizione” popolare), ovvero più del quadruplo del costo medio, stimato per l’epoca, di questo genere di manoscritti!
Piero della Francesca, dunque, avrebbe “copiato” da Anovelo da Imbonate? Certamente no. Ma altrettanto sicuramente, invece, il pittore aretino andò rielaborando, in modo sublime, una particolare tradizione iconografica testimoniata, in una delle sue prime “apparizioni”, proprio dal magnifico messale ambrosiano.
Luca Frigerio
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