Il racconto delle donne memoria per tutti

di Milena Santerini
Le donne raccontano e sanno raccontare, di sé, ma più spesso degli altri. Mischiano la Storia alle storie, come ha fatto Elsa Morante raccontando la storia minuta di persone piccole, di donne e bambini come Ida e Useppe nella guerra, feriti dalla Storia.
Soffocate dal paternalismo, oltre che ostacolate dal sovranismo maschile, molte donne fanno ugualmente emergere le persone dietro i sistemi, sono critiche della propaganda del potere, riconoscono la differenza tra il male e il bene anche se immancabilmente mischiati; tutte, o quasi, soffrono dei nazionalismi e delle politiche muscolari, anche se a volte credono di esserne momentaneamente rassicurate.
Quando hanno dovuto combattere i totalitarismi del XX secolo, l’hanno fatto con una lucidità particolare, e non meno determinazione degli uomini. Hannah Arendt ha mostrato la responsabilità di comprendere senza negare “l’atroce”, cioè la realtà; e ha descritto Adolf Eichmann come una persona, non come un mostro; Gitta Sereny ha raccontato il “boia di Treblinka”, Franz Stangl, come un uomo qualsiasi che non riusciva a vedere l’umano negli altri.
Soprattutto, molte hanno superato le trappole ideologiche e hanno visto il Male nascosto sotto le diverse forme politiche, senza per questo equiparare i totalitarismi o dimenticare la specificità della Shoah nel secolo breve. Margaret Buber Neumann, prigioniera prima nel gulag e poi nel lager, non pensa siano uguali, ma racconta “ciò che può avvenire, ciò che avviene, ciò che non può non avvenire quando la dignità umana è trattata con cinico disprezzo”. Etty Hillesum non vuole farsi avvelenare dall’odio.
Erika Mann come pochi altri ha saputo mostrare i danni dell’educazione nazista sulle giovani generazioni, la corruzione delle menti attraverso il culto della forza, mostrando cosa mancava alla gioventù hitleriana (e forse ancora oggi): il senso della verità. Katharina Rutschky, in modo corrosivo, ha descritto la pedagogia nera celata dietro l’educazione domestica che porta a far perdere ai bambini la libertà interiore.
Le donne raccontano gli altri e per gli altri, come oggi Goti Bauer “Parlo al plurale perché tutta la sofferenza che abbiamo vissuto lì è di tutti. Non riesco a parlare al singolare perché questa sofferenza è di tutti quelli che non l’hanno potuta raccontare”. O come Liliana Segre, che nonostante la fatica della testimonianza ha scelto di continuare a raccontare in nome di Violetta Silvera, Janine, Lina Besso, Bianca Levi, la signora Morais. Edith Bruck esce dal lager senza odio o desiderio di vendetta provando un’immensa pietà per l’umanità e spiegando ai più giovani che non è mai tutto perso.
La memoria collettiva si trasmette con l’educazione come narrazione, senza moralismi, facendo emergere le storie personali, suscitando sensibilità e comprensione per gli altri, da qualunque parte provengano. Anne Frank è diventata un simbolo con un nome e un volto, una ragazzina di 13 anni uccisa senza un perché. In Europa la storia di Peuw ha fatto conoscere le sofferenze della Cambogia. Il racconto, se onesto, porta ad assumere la responsabilità del dolore degli altri; l’immaginazione narrativa rende capaci di compassione, prefigurando pene e speranze anche di chi ci è estraneo. Il racconto cerca un’interpretazione, un significato alle grandi domande della vita, del dolore, della speranza; e così diviene intrinsecamente qualcosa che trasforma e – dunque – che educa.