IL RITORNELLO DI SANREMO

di Gianni Sibilla
“Ogni anno, in questo periodo, sembra che ogni cosa che succede al Festival sia un dramma enorme. Chi ci lavora ragiona come se stesse salvando il mondo. 5 minuti dopo la consegna del premio al vincitore, ci dimentichiamo tutto”, mi dice, con un sorriso ironico, un amico discografico.
Siamo in coda, in attesa di entrare nella sede RAI di Milano per l’ascolto in anteprima delle canzoni del 68° Festival di Sanremo. E’ uno dei riti preparatori che da qualche anno coinvolge gli “addetti ai lavori”. Un evento per i giornalisti, categoria di cui faccio parte: rappresento Rockol, la testata per cui scrivo.
Siamo assieme a manager degli artisti, uffici stampa, discografici, funzionari e dirigenti RAI: tutti valutano le reazioni dei media, annusano l’aria che tira, mentre la stampa prende appunti per gli articoli che usciranno subito dopo.
Il rito è stato introdotto dallo staff di Fabio Fazio, nel 2013: prima i giornalisti giravano casa discografica per casa discografica, per compilare il loro “pagellone” e i loro pezzi di presentazione con le prime valutazioni. Gli artisti non sono presenti: qualcuno organizza interviste e conferenze stampa nei giorni successivi, altri parleranno nei giorni del Festival. Al rito non è presente il volto del Sanremo 2018: Claudio Baglioni è reduce da una brutta influenza. “L’ho presa prima, sono diverso: mi ha preceduto di solito la prendo dopo il Festival”, scherza con la stampa, in collegamento video da Roma.
Gli “addetti ai lavori” prendono terribilmente sul serio il Festival: agende, piani aziendali, snodi di carriere artistiche vengono programmati attorno a quei 5 giorni al Teatro Ariston.In realtà quelle 25 ore di diretta su RaiUno sono la punta di un iceberg. Mesi di preparazione e trattative. Prima e durante la settimana, ore e ore di trasmissioni sugli altri media, fiumi di parole foto e video su stampa e web. A Sanremo arrivano migliaia di persone. L’Auditel fa il picco, i siti moltiplicano il traffico. La musica non si vende, ma questa è un’altra storia: i cantanti vanno in gara perché hanno comunque effetti di ritorno notevoli, se fanno una bella figura: promozione di un disco o di un progetto, ingaggi, concerti.
Anche Baglioni, quest’anno, ha ripetuto il ritornello: “Metterò la musica al centro del Festival”. I suoi predecessori lo hanno cantato tutti, nessuno escluso. Ognuno lo ha interpretato e tradito a modo suo. Perché Sanremo è un programma TV, dove normalmente ogni sera bisogna aspettare dai 30 ai 45 minuti prima di ascoltare una canzone. E’ sullo spettacolo che si giocano ascolti e successo, non sulla presa delle canzoni.
Se c’è uno che può essere credibile nel sostenere quel ritornello, è proprio Baglioni: 50 anni di carriera festeggiati quest’anno, un successo costruito con canzoni popolari e scelte spesso ardite e rischiose, concerti iper-spettacolari e qualche esperienza televisiva in passato.
Nessuno voleva fare il Festival del 2018. Carlo Conti aveva lasciato in mano alla Rai un Sanremo non ripetibile, per successo televisivo e musicale: Auditel altissimo, la canzone vincitrice del 2017, “Occidentali’s karma” di Francesco Gabbani, è diventato un tormentone da 177 milioni di visualizzazioni su YouTube.
Baglioni, da (apparente) outsider televisivo, non ha questi problemi. Gli artisti si fidano di lui, perché è uno di loro. Se gli ascolti andranno male, potrà semplicemente tornare a fare musica: ha già un disco in uscita e un tour esaurito.
Così ha fatto scelte artistiche nette: via il meccanismo televisivo delle eliminazioni: tutti i cantanti arrivano in finale; le canzoni potranno durare fino a 4 minuti: un’eternità, per la TV e anche per le radio; ha tenuto fuori dalla porta i ragazzi appena usciti dai talent, e ha scelto un cast di artisti con una carriera già ben avviata, tendenzialmente “adulti”, da Rai1, ma con un occhio ad arrangiamenti raffinati e ad altri generi (come il rock).
C’è un momento, in cui quel “prendersi sul serio” raggiunge il suo climax. E’ la conferenza stampa del giorno dopo la prima serata. Al “Roof” del Teatro Ariston sono accampati per 8 giorni centinaia di giornalisti, dove assistono a incontri con cantanti e ospiti. Il momento più importante è il rito dell’ora di pranzo, la conferenza stampa dell’organizzazione: direttore artistico, direttore di rete, conduttori, si presentano a discutere di cosa è successo la sera prima.
Se gli ascolti sono buoni, le facce sono sorridenti, l’atmosfera rilassata, le domande dei giornalisti (che sono spesso più delle mini-conferenze) sono tranquille. Se gli ascolti sono andati male, l’opposto: tensione tra i protagonisti; i media, sempre in cerca della polemica, vanno a nozze.
Ci si prende sul serio anche sui pronostici: i favoriti sono Ermal Meta e Fabrizio Moro con un brano di reazione al terrorismo, Ron che canta Lucio Dalla - magari Elio e Le Storie Tese come premio alla carriera: si sciolgono dopo il festival ma il brano è tutto fuorché funambolico, come ci hanno abituati in passato - chissà se si inventeranno qualcosa sul palco.
Ma il meccanismo ogni anno è diverso, e può succedere di tutto - quest’anno noi giornalisti votiamo anche nella sera finale (è un modo per farci sentire importanti per 5 minuti…).
Mi ricordo ancora le facce schifate di qualche collega al primo ascolto di “Occidentali’s karma”, in RAI l’anno scorso. Nessuno avrebbe scommesso su Gabbani. A me era piaciuta subito, ma non avrei mai detto che sarebbe funzionata così bene, figuriamoci vincere. Le canzoni, cambiano rispetto a come le sentiamo al primo ascolto. C’è il palco, la performance scenografia, la regia. C’è la TV, insomma.
E ciò nonostante, anche quest’anno sentiremo il ritornello “la musica al centro” e anche quest’anno non sarà rispettato. Ma ciò che rende bella una canzone non è solo il ritornello, ma l’insieme di strofe, inciso, melodia, interpretazione. Allo stesso modo la musica è solo una parte dello spettacolo di Sanremo. Importa davvero che sia al centro?
Gianni Sibilla
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