LA CHORA DELLA TYCHE

Il 21 agosto del 2020 è stata pubblicata sull’equivalente turco della nostra “Gazzetta Ufficiale” (“Resmî Gazete”) la decisione di trasformare in moschea il museo del Kariye Cami a Istanbul. Meno di un mese prima, il 24 luglio, veniva aperta alla preghiera islamica la moschea di Ayasofia, anche in quel caso prendendo il posto del precedente museo. Un singolare parallelismo lega da tempo i due edifici della megalopoli sul Bosforo, nati entrambi - rispettivamente come San Salvatore in Chora e Santa Sofia - nel segno del culto cristiano e durante la grande esperienza storica e culturale di Bisanzio: ma in momenti e per committenze di cui va sottolineata la diversità.
La Grande Chiesa di Santa Sofia fu costruita dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo all’apogeo dell’Impero, laddove l’appartato complesso monastico celebrato per la sua decorazione pittorica e musiva (più volte accostata alla giottesca Cappella degli Scrovegni a Padova) fu commissionato da un privato, il funzionario e scrittore bizantino Teodoro Metochita, ottocento anni dopo, quale buen retiro dalle vicissitudini della vita terrena, che egli leggeva nel segno del gioco della Sorte. Il Metochita infatti rievocava e interrogava la Tyche antica (anche in rapporto con il Cristianesimo) in testi di ardua lettura, comunque imprescindibili per la letteratura bizantina e per tutta la tradizione saggistica occidentale, nel lungo arco che va da Plutarco a Montaigne a Leopardi.
Al proposito, appare proprio una ironia della Sorte che, nel famoso mosaico del nartece interno della sua Chora, egli sia raffigurato con il capo coperto da un turbante “alla turca” mentre offre il modello della nuova fondazione (che oltre a monastero e chiesa comprendeva ospedale, mensa, biblioteca) a un Cristo in trono, che l’iscrizione musiva definisce he chora ton zonton, ovvero “il luogo dove dimorano i viventi”. Il dato è prezioso: rende ragione del nome del sito e ammonisce in merito alla precarietà di ogni luogo fisico, incluso (la cronaca ce lo dimostra) quello che fornisce l’ammonimento.
I mosaici e gli affreschi di Chora espongono agli occhi capaci di visione e di incantamento una sorta di intero ciclo dell’umana avventura in chiave cristiana, dagli antenati di Cristo al Giudizio Finale, con speciale enfasi sulla Infanzia di Cristo e sulle Storie della Vergine. Alcune scene hanno un garbo ellenistico, altre risentono di secoli di codificazione iconografica, ma tutte concorrono ad abbattere il pregiudizio della fissità dell’arte bizantina: anzi, in coerenza con l’idea e persino con l’etimologia di Tyche cara al Metochita, questa “estate di San Martino dell’arte di Costantinopoli” (la felice definizione è di Patrick Leigh Fermor) rappresenta un irripetibile campionario del “qui e ora” nelle pose e nei gesti delle centinaia di soggetti rappresentati.
C’è chi si incanta dinanzi all’angelo in volo nell’affresco del Giudizio Finale: regge su di sé il cielo, arrotolato a mo’ di conchiglia per contenere il sole, la luna e le stelle. Altri rimangono specialmente attratti dall’affresco della Discesa agli Inferi. Sopra le porte abbattute dell’Ade, in una distesa di lucchetti e chiavistelli divelti, un atletico e lucente Cristo inscritto in una mandorla afferra di qua Adamo, di là Eva e con loro tutte le generazioni che fino ad allora furono “viventi”. Era davvero, questa del Cristo, una danza, come voleva Olivier Clément? Il quesito forse è destinato a non avere risposta, mentre è agevole constatare la sorte parallela di Santa Sofia e di Chora attraverso i secoli.
La Grande Chiesa, simbolo del più che millenario Impero abbattuto, fu trasformata in moschea subito dopo la sanguinosa conquista ottomana di Costantinopoli (29 maggio 1453), per essere volta in museo nel 1934, al tempo della “nuova Turchia laica” di Mustafa Kemal. Quanto a Chora, ne ricalcò le orme dopo qualche decennio: moschea all’epoca del sultano Bayazid II (14821-1512), divenne museo nel 1958. Oggi i ritmi del parallelismo storico sono più veloci, e in questa estate dell’horribilis 2020 non sembrano essersi mai placate le proteste dinanzi a queste “retroversioni regressive” in moschee.
Tanto più che quei due sommi esempi dell’arte e del culto bizantino sono inscritti sin dal 1985 nella lista del “patrimonio culturale mondiale” dell’UNESCO, e dunque posti al di là di ogni rivendicazione nazionalistica o religiosa. Giova ricordare peraltro che, se entrambi rientrano nel catalogo di quella spesso sopravvalutata istituzione, non è tanto per il loro senso o per la loro qualità ma perché contribuiscono all’unicum che è il centro storico di Istanbul, dunque insieme a (non contro) altri monumenti, sacri e profani, sia bizantini e cristiani che islamici e ottomani.
Quella dell’UNESCO è stata forse una interpretazione “debole” di complessi significati e stratificazioni storico-culturale, ma ciò almeno ha a lungo protetto da ogni intento separativo. E l’universalità del patrimonio culturale è stata comunque evocata dagli studiosi e dagli intellettuali turchi che hanno criticato le recenti decisioni del loro governo, mentre gli organi di stampa e i governi di Grecia e di Cipro - sensibili all’eredità bizantina per profonde ragioni culturali, linguistiche e religiose, e nel contempo attenti a ogni mossa turca in campo militare, economico, politico – paventano i peggiori sviluppi.
L’opinione pubblica internazionale sembra troppo assorbita nel suo nuovo “totalitarismo sanitario” per prestare il debito ascolto ai segni che giungono da quella faglia tra Europa ed Asia dove “la geografia è così pronta a trasformarsi in storia” (Brodskij). Con particolare riferimento a Chora, meritano considerazione le parole del presidente dell’Associazione Internazionale di Studi Bizantini, John Haldon (Princeton), che ne critica la “retroversione regressiva” in moschea anche per l’inadeguatezza dei suoi spazi alle esigenze della preghiera islamica.
La metamorfosi à rebours delle chiese–moschee–musei in moschee di ritorno, con le sue numerose implicazioni (a partire dal diritto dei beni culturali), aggiunge una nuova e inattesa pagina all’infinito registro relativo all’uso politico dei monumenti, cui la storia del Cristianesimo stesso non è certo estranea. Intanto ci si domanda se e quando a Chora, come nella moschea di “Ayasofia 2.0”, la tecnologia politicamente guidata dei sistemi di illuminazione “dedicati” e delle cortine avvolgibili schermerà - anche se “solo durante la preghiera islamica” – immagini plurisecolari di squisita bellezza. Precluderne o limitarne la visione non sarà una lotta contro l’incircoscrivibile destino, una sfida alla chora stessa della Tyche?
Paolo Cesaretti
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