LA GUERRA COME DISCONTINUITÀ DI UNA POLITICA DISCONTINUA

di Miguel Benasayag
In questo mese e mezzo abbiamo giustamente sentito parlare molto dell’invasione russa in Ucraina e il mondo, per lo meno una parte, sembra essere sconvolto. Cerchiamo di approcciare l’argomento tratteggiando qualche puntino di contestualizzazione del mondo in cui abitiamo e del caos che viviamo, provando a vedere se può emergere una logica e qualche elemento di comprensibilità.
Per quanto riguarda la situazione ucraina in sé, bisogna ricordare in primis che sono oramai otto anni che va avanti un conflitto soprattutto nel Donbass, una delle principali regioni contese nel conflitto e che la Russia vorrebbe occupare. Dopo otto anni di un conflitto conosciuto da tutti senza che causasse una sola lacrima, Putin decide, di fronte alla possibilità che l’Ucraina entri a far parte dell’alleanza militare NATO, di attuare un’invasione e un’aggressione terribili. L’Ucraina, malgrado tutto, prova a resistere, forte delle armi inviate da alcuni Paesi dell’alleanza atlantica e contro le aspettative.
Un altro elemento di contestualizzazione: la guerra che stiamo vivendo non è ovviamente il primo conflitto scoppiato in questi anni né il primo cui partecipa, seppur indirettamente, la NATO (né, tra l’altro, la prima invasione russa degli ultimi decenni). La guerra in Siria, per prendere un esempio celebre, non è finita (nonostante i giornali ne parlino meno). Numerosi sono i conflitti, a partire dallo Yemen, in corso nel continente africano, per non parlare della tragica situazione libica. La guerra in Ucraina non costituisce nemmeno il primo evento tragico causante numerose morti che avviene “vicino a noi”, non più in terre lontane: come poter affermare una tale assurdità, quando a pochi chilometri dalle nostre coste, europee ma italiane in particolare, abbiamo assistito durante gli anni – non senza colpe – alla tragedia di circa trentamila morti innocenti che cercavano di scappare da una realtà ingiusta per provare a sperare in qualcosa di meglio?
Si tratta ovviamente di una “lista” ristretta, semplificatoria, che non pretende fornire un quadro dettagliato del caos guerrigliero e mortifero in cui siamo immersi.
Nonostante tutto, per di più, nessun elemento qui menzionato costituisce la minaccia più imponente e preoccupante, rappresentata invece dalla devastazione degli ecosistemi e dal riscaldamento climatico. È appena uscito l’ultimo rapporto del GIEC, secondo il quale rimangono soltanto tre anni (entro il 2025) per raggiungere il picco di emissioni e limitare il riscaldamento climatico a 1,5°. La dipendenza da carbone e gas, l’estrattivismo dilagante, la riduzione drastica della biodiversità (tanto da poter parlare di una terza estinzione di massa), i sette milioni di morti all’anno a causa dell’aria inquinata sono soltanto alcuni degli elementi di una situazione tragica che nessuno, tra i governanti, sembra affrontare seriamente.
LA COMPLESSITÀ DEL CONTEMPORANEO
Perché citare tutti questi elementi? Si tratta di mettere in luce e provare a descrivere il caos che stiamo vivendo e che corrisponde al cambiamento di un’epoca (la Modernità, nata più o meno durante il Rinascimento e che ha attraversato una lunga crisi tra la fine del XIX secolo e tutto il XX) e all’incontro con la complessità (chiamiamo così, in mancanza di altri termini, l’epoca attuale).
L’emergenza del caos che viviamo, in particolare legato alle questioni climatiche e ambientali, è il sintomo del fatto che il modo di agire, di produrre, di abitare il mondo proprio della Modernità occidentale non è sostenibile né vivibile. Sono ovviamente le drammatiche conseguenze sulla possibilità stessa per la vita di continuare ad esistere su questo pianeta i testimoni più affidabili. Il problema è che nell’epoca complessa in cui viviamo si presentano a noi molto chiaramente i disastri e la distruzione causati dall’agire umano (e occidentale in particolare) per secoli, molto meno chiaramente, invece, le nuove forme di costruzione e di creazione di qualcosa di altro, di un agire e un pensare all’altezza dell’epoca della complessità.
È un’epoca caratterizzata dalla discontinuità, dall’impossibilità di restare dentro lo schema moderno di una causalità lineare, che ci obbliga a un agire non più teleologico e transitivo che assuma le sfide della situazione e i rischi che ogni impegno comporta, senza garanzie di successo. All’interno di questa confusione, grande è il rischio di assistere ad attitudini paternaliste e autoritarie da parte di chi governa e dovrebbe quindi “gestire” le nostre società: che sia in pandemia o in guerra – e al di là delle considerazioni di merito sul contenuto – è evidente il modo di comportarsi da parte del potere che segnala ciò che si deve pensare, ciò che è importante pensare e ciò che è superfluo o ciò che non si deve pensare.
SENSO O FUNZIONAMENTO
E il parametro decisivo non sembra essere legato a un senso qualsiasi delle varie situazioni che ci troviamo ad affrontare, quanto invece al funzionamento delle stesse che rientra nel funzionamento globale da non intaccare. Ecco appunto un elemento centrale che segna il passaggio dalla Modernità alla complessità: perché se è vero che le guerre e la distruzione sono sempre esistite e non costituiscono una particolarità della nuova epoca che viviamo, è altrettanto evidente però che dal senso si è passati al puro funzionamento. Ecco allora che quando si parla di pandemia, di guerra, di migrazioni, di cambiamenti climatici il quadro delle discussioni cambia, poiché la guerra (per prendere l’esempio più attuale), come la politica in generale, sono diventati modi funzionanti al di fuori di ogni senso, in cui gli esseri umani sono intrappolati.
“Intrappolati”, poiché il problema centrale della nostra epoca consiste proprio nel trovare un’alterità al funzionamento, che sembra colonizzare l’esistenza tutta. In realtà, le guerre come quella in atto in Ucraina non sono assolutamente legate all’ideologia, all’aver ragione o meno, al combattere per una causa, poiché l’unico elemento che attira l’attenzione e suscita l’interesse è un disfunzionamento all’interno del funzionamento globale neoliberista. Non è più il tempo dello “spazio vitale”, delle guerre profondamente ideologiche come quella civile spagnola, o l’ultima rientrante in quel paradigma, ossia la guerra in Vietnam (dove addirittura era in gioco “il senso della storia”, la direzione che avrebbe preso, lo scontro tra socialismo e imperialismo americano e così via).
Chi analizza questa guerra con le lenti dell’ideologia è, volente o nolente, impregnato di propaganda. Le guerre contemporanee sono legate principalmente a fattori economici e finanziari, e l’unica domanda a cui sono sottomesse è: “questo può funzionare o no?”. Ci sono guerre estremamente funzionanti, come guerre che creano problemi per cui è necessario intervenire. Se prima, quindi, gli elementi ideologici costituivano realmente uno dei vettori (insieme ovviamente al vettore economico che è sempre esistito) in gioco, oggi qualsiasi senso possibile è rimpiazzato dal funzionamento.
Le guerre sono oramai pensate e agite come modificazioni funzionanti o disfunzionanti, e “l’esportazione della democrazia”, “la lotta all’islamismo”, la “denazificazione” sono soltanto narrative costruite per giustificare conflitti di puro funzionamento. Quindi, nonostante la forma della guerra non sia cambiata granché, e assistiamo a un esercito che invade un altro Paese per conquistarne almeno una parte, è importante notare la differenza enorme che esiste tra guerre come questa e quelle di un’altra epoca oramai finita. Le guerre dell’epoca post-moderna e complessa sono guerre di gestione, in un mondo in cui la gestione rimpiazza la politica e il funzionamento domina sull’esistenza.
Miguel Benasayag
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