La rivincita dell’imbrattatele

La rivincita dell’imbrattatele

17.12.2022
di Maurizio Cecchetti

Se ci dicessero che distruggendo la Gioconda scomparirebbero tutti i mali dell’intero pianeta, chi di noi non sarebbe almeno tentato di pensarci su facendo un conto dei guadagni e delle perdite per l’umanità? Scomparirebbe uno dei quadri più discussi della storia dell’arte, non il più importante, ma certo il più considerato dal pubblico (tanto che Duchamp lo sbertucciò mettendo i baffi a Monna Lisa), ma il paradiso in terra sarebbe a portata di mano. Personalmente, ci farei un pensiero. Dopotutto, i grandi dissesti ambientali che pare siano uno dei portati della nuova era, l’antropocene, grazie a un primitivo rito sacrificale, verrebbero guariti. Inutile scomodare Girard e il suo “meccanismo vittimario”, tanto non accadrebbe. E se si trovasse una via meno cruenta ma sempre scioccante? Vale a dire: se invece di distruggerlo, si imbrattasse il vetro che protegge il quadro più famoso al mondo con una vernice o con una zuppa in scatola allo scopo di attirare l’attenzione sulla battaglia ambientalista che le generazioni gretine conducono per il futuro del pianeta (che sembra anche la loro aspettativa massima di futuro), chi sarebbe così moralista da attaccare questa disperata azione dimostrativa? Ma sì, se serve a esprimere il malessere di una generazione che si sente senza futuro, fate pure ragazzi, non sarà la fine del mondo. Un gioco di parole, un modo di dire, che ha appunto lo scopo di evitare l’apocalisse: sì al vandalismo, no alla fine del mondo. Ma è così diretto il nesso? E quali interessi – vera eterogenesi dei fini – possono scaturire da questi gesti compiuti con una certa ingenuità, che non è di coscienza, perché questi giovani sono consapevoli di fare qualcosa che ha una valenza pubblicitaria, bensì per le loro aspettative: davvero il mondo si farà impressionare da questo estremismo all’acqua di rose? Non è un azzardo un po’ troppo perbene? Può servire a qualche dibattito non tanto sulle ragioni degli ambientalisti, ma su come reagire e prevenire altre simili azioni: già i musei parlano di mettere il vetro ai loro dipinti più importanti (grande lucro per i mastri vetrai) e questo ha indubbiamente un effetto sulla percezione dello spettatore che sarà disturbato da riflessi luminosi, magari si troverà a sua volta proiettato sulla superficie del quadro come un intruso, non avrà modo di “sentire” veramente l’opera a partire dalla sua materia pittorica, che è fatta anche dalle tracce delle pennellate, delle impurità; si rischia, alla fine, una visione se non falsata quanto meno distorta. E la percezione è il primo viatico che ci consente di elaborare sensazioni e pensieri.

Finalmente, mi vien da dire, anche un personaggio sempre bistrattato, l’imbrattatele ha i suoi simpatizzanti e una missione da compiere. Si sono dati molto daffare in questi ultimi mesi gli attivisti che hanno nomi di battaglia quasi imperativi: si va dal “Just stop oil”, alla tedesca “Letzte Generation” (che corrisponde all’italiana “Ultima generazione”), arrivando a “Extinction Rebellion”.

La storia moderna dell’arte è disseminata di vandalismi: molti forse ricorderanno le martellate inferte alla Pietà di Michelangelo dall’ungherese Laszlo Toth con lesioni a una mano e al volto della Madonna; nel 1993 un artista francese, Pierre Pinoncelli, entrò al museo di Nimes e urinò dentro Fountain di Duchamp, più noto come l’orinatoio, dopodiché lo spaccò a martellate. Il primo dei due gesti esaltava ovviamente la funzione dell’oggetto, che tuttavia era esposto come opera d’arte e in una posizione che ne impediva l’uso; il secondo gesto è difficile da inquadrare perché se da un lato ne contesta lo statuto artistico, dall’altro ne riconosce il valore compiendo l’atto distruttivo. Il bellicoso Pinoncelli venne condannato – roba da matti – per “parassitismo della gloria”: è soltanto uno dei possibili riflessi comici che l’ottusità della legge interpretata alla lettera svela quando si trova a gestire qualcosa che ha codici abbastanza diversi dal burocratismo leguleico. Non contento della sua bravata Pinoncelli ci riprovò nel 2006 prendendo a martellate un’altra copia dell’orinatoio conservata al Beaubourg (quella originale del 1917 andò perduta quattro anni dopo e ne resta soltanto una celebre fotografia di Stiglitz, che è anche un interessante rebus visivo; quelle che vediamo oggi solo solamente copie firmate da Duchamp negli anni Sessanta), e il performer, chiamiamolo così, diede a intendere che il suo gesto interpretava il gioco di parole dello stesso Duchamp: ruiner, uriner. Si potrebbe continuare a lungo: dieci anni fa, per esempio, al museo di Houston un vandalo cosparse di vernice spray un dipinto di Picasso, Donna sulla poltrona rossa.

Quella dell’offesa all’opera d’arte non è affatto una forma di schizofrenia, e può persino incarnare una “ideologia”. Il nostro secolo si era aperto con i talebani che abbattevano i grandi Buddha di Bamiyan risalenti al VI secolo. Una dozzina di anni dopo, nel 2013, altri danni gravi vennero apportati all’area archeologica della siriana Palmyra. Le guerre distruggono, si sa, ma le opere d’arte sono spesso prese di mira per colpire la cultura del nemico, la sua identità, la sua storia. Ogni vandalismo volontario a un’opera d’arte è un vulnus inferto a un potere oppure può attirrare l’attenzione sulle sue inadempienze o mancanze, sui suoi autoritarismi ovvero sulla corruzione.

Quelli di “Ultima generazione” qualche giorno fa hanno coperto di farina l’auto di Andy Wahrol all’interno della mostra dedicata al genio americano La pubblicità della forma in corso alla Fabbrica del Vapore a Milano. Quale miglior azione propagandistica di un atto vandalico sulla sua auto? Considerando, poi, che la farina non erode la vernice e può essere facilmente lavata. Se sorge qualche sospetto di un’azione programmata a vantaggio della mostra però non è affatto casuale. I vandalismi dei difensori dell’ambiente finiscono tuttavia per portare acqua al mulino di quegli stessi che vorrebbero contestare: nell’epoca dove si è imposta una sincretica religione dell’arte, colpirne le “icone” è una dissacrazione che suscita nell’opinione pubblica unanime condanna. Qualcuno cerca di assolverli notando che il loro è un vandalismo debole: colpiscono opere che, in genere, sono protette dal vetro, quindi non cercano veramente di distruggere ciò che prendono di mira. Che volete che sia, vien da dire, rispetto a Erostrato che, per far parlare di sé, nel 356 a.C. bruciò il tempio di Artemide?

Dopo la zuppa di pomodoro sui Girasoli di Van Gogh alla National Gallery di Londra ecco il purè sui Covoni di Monet al Museo Barberini di Potsdam; a casa nostra, è toccato alla Primavera di Botticelli agli Uffizi e alla scultura di Boccioni Forme Uniche della Continuità nello Spazio al Museo del Novecento a Milano. Tutto ebbe inizio dalla torta in faccia alla Gioconda (qualcuno potrebbe notare che la torta in faccia è uno dei dispositivi che scatenano in riso nelle comiche) e poi ci si è spinti un po’ oltre al museo londinese di Madame Tussauds gettando una torta sulla cera di re Carlo III (humour inglese?). Meno coraggiosi dei primi obiettori di coscienza al servizio militare, che testimoniavano il loro no alla violenza e alla guerra scontando il carcere, alcuni di “Ultima generazione” sono entrati alla Cappella degli Scrovegni e si sono incatenati alle balaustre. Gettare zuppa di verdure sull’affresco gli sarebbe costato più caro che colpire un quadro protetto dal vetro. Ma anche la controparte, i funzionari dei musei, non vogliono essere da meno e chiedono ad alta voce misure punitive, reclusione e multe sonore. Tutto, alla fine, può servire alla pubblicità, in questo caso, quella della parte lesa.

C’è da domandarsi, però, se anche questa moda degli “imbrattatele” non sia collegata a suo modo con la Cancel Culture. Se non avete a cuore il futuro dei vostri ragazzi e del pianeta, non meritate nemmeno i capolavori che avete ricevuto in eredità da una storia fortemente collusa col pragmatismo dello sfruttamento capitalistico delle risorse che genera inquinamento, degrado ambientale, disuguaglianze fra i popoli. Il merito era un cavallo di battaglia anche dei rivoluzionari francesi che espropriarono re, nobiltà e clero del loro patrimonio e con quei beni misero in piedi il Louvre. Napoleone li prese in parola ed espropriò mezzo mondo, nella convinzione che Parigi fosse l’unico caveau dell’Europa meritevole di custodire i capolavori.

I “cancellatori” di oggi non hanno manie imperialiste, non vogliono impossessarsi di tesori artistici, sono, in fondo, dei moralisti che credono basti oscurare la “gloria” che risplende su un’opera sublime per impossessarsi di quell’aura facendone mezzo di lotta politica. La pubblicità negativa – come scrissero mezzo secolo fa Adorno e Horkheimer – è sempre pubblicità, cioè porta i riflettori della società di massa su chi la riceve: “bene o male, purché se ne parli”. Non è questo che molti intendono per democrazia?

Maurizio Cecchetti

Maurizio Cecchetti è un critico, giornalista ed editore. Tra i suoi libri si ricordano: “Edgar Degas. La vita e l'opera” (1998), “Le valigie di Ingres” (2003), “I cerchi delle Betulle. Apocalisse” (2007), “Pelle di Vetro" (2010).

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