La scuola e la tirannia del voto

“Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto”: il sottotitolo di un recente lavoro di Cristiano Corsini, dedicato alla valutazione nella scuola, è una provocazione quanto mai attuale in un tempo in cui dalle narrazioni politiche e giornalistiche, spesso sembra che dal rigore (nell’accezione della severità nell’attribuzione) dei voti e delle sanzioni passino la qualità della scuola, l’autorevolezza degli insegnanti, la difesa del merito degli studenti. Ma è parlando di voti che salveremo la scuola? La risposta è implicita e la possiamo articolare in questo modo.
Iniziamo dal suggerire che il voto (o qualsiasi strumento di certificazione di un apprendimento) non esaurisce il campo della valutazione. Come a dire che “dare un voto” sicuramente ha a che vedere con la valutazione ma valutare è anche molto altro: la formulazione di un giudizio (“dire in quale misura una realtà data può essere giudicata accettabile in rapporto a delle attese”, direbbe Charles Hadji - specialista di fama mondiale per la valutazione in ambito scolastico e non solo, che dialogherà con il presidente dell’Invalsi Roberto Ricci,il 6 ottobre nell’ambito del Festival internazionale dell’educazione di Brescia) è presente, sì, nel momento dell’attribuzione di un voto ma anche in tutti gli altri momenti (anche informali) della vita scolastica. E anche gli studenti valutano: lo fanno, come tutti, quando attribuiscono un valore agli oggetti, agli eventi, ai risultati dei loro apprendimenti e possono venire valorizzati nei momenti “autovalutativi”.
Il voto non consiste in una qualche forma di misurazione della realtà, come spesso ci rassicura presentarlo, bensì è l’espressione, il segno di un atto valutativo di chi dinanzi a una performance ha verificato sulla base di criteri, ha situato l’oggetto della valutazione nel suo mondo ideale e ha espresso un giudizio di valore. Di per sé non esiste nessuna differenza sostanziale tra un voto numerico e un analogo giudizio (tra l’altro, ci permettiamo di osservare, non esisterebbe neanche la possibilità di formulare una media matematica di voti, esattamente come di giudizi). Aggiungiamo che il voto, in quanto strumento di comunicazione, non è l’obiettivo della scuola, ma un suo mezzo: si tratta di uno strumento comunicativo che va pensato, gestito eticamente, e che non deve far dimenticare il compito di crescere ragazzi autonomi e critici.
Vale la pena di spendere qualche parola anche sulla valutazione nella scuola primaria, modificata a partire dall’a.s. 2020/2021. Il compito si è spostato dall’attribuzione di un segno valutativo sulla singola prova alla formulazione di giudizi basati sui processi in atto da parte di un bambino in rapporto a obiettivi di competenza stabiliti. La scuola primaria allora deve collocarsi con decisione in una logica di valutazione formativa, secondo cui gli atti valutativi suggeriscono dove un alunno si trova all’interno di un percorso di crescita. Leggere questo dispositivo con gli occhiali di chi a scuola era abituato a ricevere voti e sanzioni è fuorviante. Le scuole stanno facendo molta fatica a entrare in questa logica, i genitori dovrebbero essere coinvolti in attività informative. Tutto ciò non stupisca: i processi di cambiamento sono faticosi nella scuola, ma quel che sta avvenendo risponde a una normativa presente da anni nel nostro Paese.
Infine, in una logica formativa, suggeriamo che una scuola che coinvolge anche gli studenti nei momenti valutativi e nella condivisione dei criteri di attribuzione di un valore è una scuola che non solo cementa un patto formativo con i bambini e con i ragazzi, ma che li aiuta a rendersi autonomi, critici, a imparare a valutare ciò che fanno. È una scuola che cerca di coinvolgere e di aiutare tutti nel loro percorso di apprendimento in un ambiente collaborativo. Si tratta del gioco, per dirla nel linguaggio didattico, della valutazione “formatrice”. Una scuola che semplicemente attribuisce voti produce sicuramente un impatto formativo, ma forse è bene ricordare, a cent’anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, il monito lanciato con grande lucidità dai ragazzi di Barbiana: “Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano […] Dietro a quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale […] Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere già arrivisti a 12 anni. A 12 anni gli arrivisti sono pochi. Tant’è vero che la maggioranza dei vostri ragazzi odia la scuola”.
Il compito della scuola, seguendo le parole di Hadji, sarebbe di promuovere l’ideale di “una valutazione umanistica che valorizzi le forme della valutazione già in uso nel loro poter essere al servizio delle persone”. E occorre considerare, anche se può far male, che quando un insegnante, per far valere la propria autorità, ha come unica arma un voto o una sanzione ha perso. Come insegnante e come educatore. Perché l’autorità (in un contesto di autorevolezza) si guadagna nel momento in cui un gruppo di alunni vede nel proprio insegnante una guida solida, competente, capace di motivare e di far comprendere, oltreché una persona che si dedica a loro. È in questa direzione che occorre aiutare gli insegnanti, ed è una direzione che passa per la loro formazione e per un accompagnamento del loro sé professionale.
Michele Aglieri
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