La sirena e il pavone

India. Un discepolo si lamenta con il guru. “Maestro, mi hai affidato il compito di meditare ogni giorno all'alba, ma non posso farlo.” “Come mai?” chiede il maestro. “A quell'ora la sirena della fabbrica fischia e infastidisce il mio esercizio”. “E' semplice” risponde il maestro. “Da oggi mediterai sulla sirena della fabbrica”.
Il giovane discepolo è l'accademico per eccellenza. Ha già catalogato la realtà secondo criteri precisi e arbitrari, tipici di ogni puritanesimo di maniera secondo cui l'estetica del trascendentale si divide in alto e basso, in consono e non consono. Per lui il trascendentale non può dare fastidio e certamente la sirena della fabbrica non corrisponde alla sua limitata aspettativa di ciò che può essere considerato elevato, quindi degno di meditazione. Il fischio è negazione del suo spirituale, negazione di bellezza. Ma quello spirituale e quella bellezza sono semplicemente le finzioni di un consesso sociale che in modo capzioso tenta di appropriarsi dell'ignoto per ridurlo a servitù di comodo. Ogni evento che con la sua sola presenza metta in discussione l'equilibrio cristallizzato in questa dichiarazione di possesso viene messo fuori gioco, in genere confinandone la diversità nei territori abietti e indistinti dell'inappropriato, dello sporco, dell'inferiore. Quella diversità infastidisce e interroga, certifica l'esistenza di altro e altri oltre al sé e il proprio minuscolo alveo di convinzioni mummificate in un bozzolo da cui la crisalide di una bellezza viva si è allontanata da un pezzo.
La risposta del maestro non propone un esercizio ulteriore ma un radicale cambio di lettura, senza cui ogni pratica, estetica o religiosa che sia, è priva senso. Un cambio di disposizione verso il mondo e verso se stessi. La moltitudine disorientante e caleidoscopica che ci circonda non è mai estranea al mistero, anche nelle sue forme svariate e spiazzanti. Siamo noi il problema, siamo noi a dover entrare nel luogo sacro del suono che stride, precluso da pregiudizi coccolati in anni di formazione che immaginiamo certificare un lasciapassare all'esclusiva della bellezza salvifica. La nostra, ovviamente.
La bellezza però non salva nessuno. Non salva nessuno se non genera gesto. Il profumo, sua mirabile metonimia, non è in sé un luogo. E' un invito al luogo capace di scuotere il corpo. Segui il profumo, ma non vai verso il profumo; vai verso il luogo intuìto che il profumo rende presente per sottrazione e tangenza.
Il discepolo immagina l'estetica della sua meditazione come un gioiello decorativo, molto simile ai florilegi barocchi di tanta arte sacra, bomboniere di convenzioni da minuetto cicisbeo che non reggono più il confronto con la dimensione dell'uomo contemporaneo, urgente, smaliziata e vorace.
Da quando l'arte ha assunto per me la forma curiosa di un grimaldello con cui provare a scassinare i sacri Graal dell'esistenza, evento maturato mio malgrado in una disseminazione di mezze intuizioni e tante vite diverse, mi è stato chiaro che gli ambiti sono perlopiù frutto di artificio. Arte e sacro non sono dimensioni differenti. La chiave dell'estetica trascendente è la medesima della estetica pragmatica. Il motivo è a monte. Non credo esista una prassi che esuli dal trascendente e viceversa. Non si tratta di contiguità. Si tratta di coincidenza.
Nella mia esperienza, l'arte veicola una rivendicazione di libertà viscerale.
Potrebbe quindi sembrare una contraddizione che mi sia entusiasmato quando ho avuto la possibilità di realizzare un primo estensivo intervento dentro una chiesa, che nella narrazione contemporanea viene figurata non di rado come luogo di limitazione artistica. Un contesto quasi disdicevole per l'artista militante, in parte a causa delle responsabilità nell'aver delegato per decenni le committenze a controparti inadeguate. Ma il terreno delle deprecazioni e delle lamentazioni, dell'attribuzione di colpe e dello stracciarsi le vesti appartiene storicamente a Caifa, non a chi ha a cuore il bene proprio e degli altri. Per quanto possa apparire sconveniente ognuno ha piena libertà di essere ciò che riesce ad essere, e produrre ciò che riesce a produrre, con tutti i suoi limiti e i suoi pregi. Merita comunque attenzione e rispetto, come il suono stridente della sirena che sorprendentemente può rivelarsi il luogo della meditazione piuttosto che la sua nemesi. La sfida del luogo sacro riassume tutti gli elementi essenziali di arte e poesia. Il confronto dell'artista con il percorso simbolico liturgico porta in grembo una tale ricchezza di stimoli, interrogativi e soluzioni da non potersi mai considerare concluso una volta per tutte. Non credo nemmeno si possa codificare. Si può raccontarne l'evoluzione, si può comunicarne il fermento. Si può condividerne la gioia e l'inquietudine.
Comprendo chi vive questi tempi conflittuali e controversi come l'apice di una confusione endemica. Ma vedo le cose in un modo sensibilmente diverso da chi preconizza la fine di chissà cosa, classico presidio sanitario di ogni senilità culturale irrisolta. A me questi tempi sembrano offrire opportunità senza precedenti sul fronte della espressione formale e ideale. Lo iato tra scienza e intuizioni spirituali che ha caratterizzato secoli di incomprensioni drammatiche oggi non ha più senso di essere. Basta vedere alcune risultanze nel campo della fisica teorica, territorio affascinante e ambiguo perlomeno come quello estetico, che a volte appaiono più avanzate della più avanzata teologia. Oggi posso affermare con la scienza che una mela e un raggio di luce portano in sé la stessa quantità di mistero, le cui apparenze non si dividono per classi di privilegio contrariamente a quanto si è sostenuto in secoli di diatribe inutili, rispondenti unicamente ai piccoli interessi di bottega. La tempesta del novecento ha sdoganato ogni tipo di espressione, materia e forma; ci ha liberato dai vincoli e al tempo stesso ha azzerato i riferimenti. Oggi abbiamo davanti una pagina bianca su cui possiamo scrivere il nostro pensiero, se ne abbiamo uno, non quello di altri. Non si può avere libertà senza sperimentarne lo spaesamento. Possiamo ridisegnare le forme, evolvere la relazione tra significato e simbolo verso una fase nuova. A patto di affrontare l'ignoto, rinunciare a pregiudizi e rendite di posizione, a patto di voler aprire all'altro e agli altri. Non vedo oggi conflitti inediti nel secolo scorso e in quelli precedenti. Il duello tra la forma, la sua verità e la solidità della sua struttura è sempre lo stesso, mai risolvibile una volta per tutte, per fortuna. Oggi più che mai avviare un percorso produttivo nell'arte al servizio del sacro e nell'arte tout-court, significa praticare confronto, condivisione e sperimentazione.
La sconfinata varietà di stimoli cui veniamo costantemente sottoposti non è una versione contemporanea delle cavallette egiziane. E' uno tsunami salutare che può forzarci a rivedere la povertà delle categorie precedenti, così incrostate e sclerotiche che solo un cataclisma può frantumarle. Il figurativo, l'astratto, la somiglianza, la didascalia, la copia, il modo di questo o di quello, i classici, i moderni, le gerarchie di materiali e contesti, i manicheismi asfittici che hanno diviso artificialmente corpo e spirito bruciando uno per salvare l'altro, sono argomenti di un passato che denuncia tutti i suoi limiti, per quanto rivestito di grande fattura.
“Lascia che i morti seppelliscano i morti” è una proposizione la cui forza va molto oltre ogni esperienza confessionale o intellettuale specifica.
La tentazione di occuparsi dei morti nel contesto dell'arte al servizio della liturgia è tremendamente ostinata. Se ne può capire la ragione. Il passato è costellato di capolavori e meraviglie. Sembrano investirci con una aura di autorevolezza blindata solo a citarli. Ma bisogna ricordarsi che è l'oggi il vero e unico strumento a nostra disposizione per testimoniare il flusso inestinguibile dell'ispirazione artistica e religiosa. Esattamente come l'oggi di allora era il motore dei grandi maestri. Anche oggi si creano capolavori, anche oggi l'arte è terreno di sorprese ovunque, anche oggi si creano meraviglie. Così come opere mediocri o insignificanti. Comprenderlo, però, richiede la sincera attitudine inclusiva richiesta dal maestro al discepolo. Penso al pavone e alla sua ruota. Dove stà la magia? Dove l'incanto? Nei colori, nella forma, nelle trame battute da ritmi disgiunti e contigui, interpuntate da chiazze brillanti sparse in un alfabeto di geometrie organiche e capillari che ne sfrangiano i confini in maniera imprevedibile? E' questa la dote che rende la ruota del pavone, confine irriducibile e renitente ad ogni collocazione tra eleganza e bellezza, un evento così seducente e simbolico? Il suo aspetto compiuto? O invece è il progressivo svelamento del suo aprirsi con la sapienza del ventaglio di una geisha e l'astuzia di un pokerista che apre con cura le carte attento a non svelare i suoi assi? La bellezza della ruota è nel suo farsi, che custodisce la forza sacramentale di un dinamismo irriducibile, scrigno singolare e imprendibile di un mistero estetico sempre nuovo. Nuovo perchè vive dentro un rito che si ripete senza mai essere copia, che ci invita a cercarlo quando esaurisce il suo istante. Ciò che seduce non è la forma finale, ma il suo disvelarsi. Forse è questo il fondamento della chiave estetica di ogni trascendenza.
L'insistere di una estetica del mistero nel gesto credo abbia molto a che fare con ciò che Giuliano Zanchi, nella sua riflessione “Momenti di trascurabile felicità” ricca di spunti e impreziosita dal cameo di una ironia brillante e provocatoria (scaturigine del presente dibattito), definisce come “dimensione rituale”. Due forze di un unico processo che innerva insieme il carattere intrinseco ed effusivo di ogni opera capace di mettere l'uomo in gioco. Da un lato il suo farsi, la sua stessa genesi. Dall'altro il suo essere intimamente e fisicamente esperibile, epicentro di una dinamica di relazione cui l'arte, a maggior ragione quella al servizio della liturgia e del sacro, non può più rinunciare, pena il declassamento a forme decorative irrimediabilmente sterili, alle quali nessuna complessità tecnica o abilità accademica può aggiungere un singolo tratto di vita.
Il nucleo di ogni bellezza vive nel suo gesto, senza il quale perde ragione d'essere. Quel gesto non è mai una volta per tutte. Come il profumo, ci invita a cercare una meta che possiamo solo intuire e di cui ogni opera è destinata ad essere rimando sempre parziale. Per questo è gesto, per questo è, come scrive Zanchi, dimensione rituale. Cammino, non punto di arrivo; interazione vitale, non monade intangibile.
Quel gesto si rinnova costantemente e chiede di incontrare, prima di sentenze spesso ostaggio di un temibile carceriere come il pregiudizio, la nostra apertura, il nostro stupore, la nostra curiosità.
Proprio come il fischio di quella sirena, tanto simile alla pietra che i costruttori, o quelli che si immaginano tali, continuano a scartare.
Raul Gabriel
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