L’AMORE AI TEMPI DEL COVID-19

“Vaccinarsi è un atto d’amore”. Assuefatti (si fa per dire) ai “crispy numbers” dei bollettini pandemici di fine giornata, una cosa così suona quantomeno strana. Conoscendolo, Francesco l’avrà fatto apposta. Del resto, nell’epoca del sesso-gadget da supermercato, azzardarsi a parlar d’amore così, come fosse qualcosa che ha a che fare con il nostro modo di stare assieme, persino con la fatica di affrontare le disgrazie della vita, suona come un’oscenità inaccettabile. Probabilmente l’ultima rimasta. A voler essere precisi, il Papa ha pensato di dir così rivolgendosi alle popolazioni dell’America Latina. Era il 18 di agosto, quando in Europa si pensava alla terza dose, magari sdraiati sotto l’ombrellone. In quello stesso momento di riconquistata spensieratezza, c’erano paesi come il Nicaragua dove i vaccini praticamente non sono mai arrivati. Meglio il Guatemala, dove il 6% della popolazione aveva ricevuto il lusso della seconda dose.
Se ci ripensi un attimo, ti viene più semplice immaginare che l’amore sia una scelta urgente. Se ancora non è chiaro, conviene rileggere l’intero messaggio. Perché il Papa fa una piccola premessa, senza di cui la frase “vaccinarsi è un atto d’amore” diventa pappa per gatti, buona per alimentare le liti nostrane tra la fazione dei “vaccinisti” e la dissidenza no-vax (o free-vax, secondo il vezzo intellettuale di alcuni tra i più sofisticati resistenti): “Grazie a Dio e al lavoro di molti, oggi abbiamo vaccini per proteggerci dal Covid-19. Questi danno la speranza di porre fine alla pandemia, ma solo se sono disponibili per tutti e se collaboriamo gli uni con gli altri”.
Collaborare. Proprio quello che ci manca. E non solo tra paesi. Anche tra chi si ritiene a posto, perché vaccinato, e chi continua a urlare sia un’imposizione vergognosa e inaccettabile, con tanti saluti all’articolo 32 della nostra osannata Costituzione repubblicana.
Forse dovremmo tutti fare lo sforzo e provare a uscire, scienziati compresi, da quelle che Foster Wallace chiamava le nostre “configurazioni di base” (default setting): quella del vaccinato che pensa al no-vax come fosse un pazzo complottista da rinchiudere al manicomio; quella del no-vax, che è sicuro al 100% che il “vaccinista” sia uno schiavo inconsapevole, servo insulso del potere; e infine quella dello scienziato che pensa ai “laici” come a degli idioti, meglio se fanno il vaccino, altrimenti affari loro, tanto alla fine arriveranno in terapia intensiva. Così, davvero, non ne usciremo.
LA VITA È SOTTILE...
Ed è infatti, stupefacentemente, il momento di accettare che il successo della campagna vaccinale oggi non si giochi (solo) su un piano di pura razionalità scientifica, di calcolo probabilistico tra rischi e benefici dell’inoculazione, di modellizzazione previsionale di cosa sta o potrebbe succedere sul piano epidemiologico. Come suggerisce Francesco, la partita contro Covid-19 si gioca (anche) sul piano emotivo-psicologico: quello che pone le basi per la ricostruzione di un’alleanza di lavoro tra scienza, istituzioni e società. Un’alleanza che è funzione della fiducia reciproca, che è nutrita dall’ascolto delle diverse istanze e orientata al rispetto e alla collaborazione. Un’alleanza che va coltivata, preservata, difesa a partire dalla predisposizione individuale e collettiva al dialogo. Di fatto il punto sta nel favorire un cambio di atteggiamento e di prospettiva in tutti (cittadini, scienziati, decisori), dove al centro non si metta più solo se stessi e gli interessi individuali, ma anche l’altro, nella sua complessità … chiunque esso sia. L’atteggiamento positivo verso una campagna vaccinale non può essere dato per scontato e va “coltivato” a partire da un modo nuovo di dialogo e di relazione tra scienza e società, tra istituzioni e cittadini, tra collettività e singoli. Per questo la comunicazione è un elemento cruciale nelle campagne vaccinali di massa, e in particolare nel caso del vaccino contro Covid-19. La comunicazione deve essere completa, autentica ma soprattutto deve saper parlare al cuore dei cittadini. Perché prima di diffondere a gran voce i motivi a favore del nuovo vaccino bisognerebbe mettersi in ascolto e comprendere le ragioni che alimentano le preoccupazioni e i dubbi delle persone. Solo una comunicazione calibrata e personalizzata sulla base della comprensione autentica dei diversi punti di vista può aiutare davvero le persone a sentirsi ascoltate e valorizzate come protagoniste nella lotta contro la pandemia in corso. In questo senso l’ascolto rispettoso reciproco è – come suggerisce Francesco – un atto di amore.
Non usciremo dalla pandemia solo con i vaccini, dunque. Forse è proprio questo che voleva dire Francesco, quando alla fine di quel breve messaggio azzardava il sogno di una fratellanza possibile, fatta di un “amore sociale e politico”, “traboccante di piccoli gesti di carità personale”. A pensarci bene, allora, dire che “vaccinarsi è un atto d’amore” non è niente di strano, casomai suona un pochino démodé. Il sapore, però, è inconfondibile: sa di letteratura. E guai a farne a meno. Roland Barthes, nel 1977, lo aveva detto chiaramente, durante la lezione inaugurale della cattedra di Semiologia al Collège de France: “La scienza è grossolana, mentre invece la vita è sottile, ed è per correggere questo divario che la letteratura ci sta a cuore”.
di Guendalina Graffigna e Paolo Gomarasca
Paolo Gomarasca, è professore ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ed è membro del Comitato direttivo del Transdisciplinary Research On Food Issues Center (Trofic).
Guarda tutti gli articoli scritti da di Guendalina Graffigna e Paolo Gomarasca