Le ipocrisie di una lingua im-perfetta

Le ipocrisie di una lingua im-perfetta

25.09.2021
di Vittorio Marchis

Sono un ingegnere che ha cambiato cappello ed è entrato ormai da tempo, anche a carattere istituzionale, a insegnare scienze umane in un Politecnico. Qui, da anni se non da decenni, per fortuna abbiamo assistito all’ingresso del genere femminile nelle nostre aule. Se quando entrai al Politecnico come studente le ragazze erano solo nella facoltà di architettura, tra l’altro dislocata nell’altra sede del Castello del Valentino, ora le future ingegnere stanno riportando alla parità di genere anche la facoltà forse più maschilista che mai ci sia stata. Anche mia figlia Elena, che purtroppo non c’è più, laureata in ingegneria, era fiera di essere un “ingegnere” e questo segno di emancipazione lo mantengo prezioso, come molte ragazze ancora oggi si definiscono “architetto” e non architetta, un termine che almeno foneticamente farebbe sorridere.

Pur trafficando tra le file degli umanisti non sono un linguista e quanto vado a dire forse potrà sembrare anacronistico. La rivoluzione dello Ə (da poco ho imparato che si dice schwa) o anche quello dell’asterisco (*) toglie alle declinazioni di genere dei nostri sostantivi e aggettivi (ma anche participi verbali) una prerogativa di estrema variabilità e differenza: quella differenza che peraltro molti indicano come simbolo di civiltà. Ci sarebbe molto da dire, ma non credo che questa rivoluzione unisex, in apparenza innovativa per la battaglia contro l’antifemminismo, possa portare grandi vantaggi a una società che, se non contempera differenze e parità di genere, ben poco potrà mutare i nostri costumi, spesso profondamente maschilisti. Basta osservare i messaggi visivi e sonori che ci propina quotidianamente la pubblicità.

Ritorniamo ai sostantivi e al loro genere: quale soldato (in una società che ancora non aveva visto l’ingresso delle donne tra i militari) si è mai sentito sminuito nella sua virilità di essere definito come una “sentinella” o una “guardia”? Alcuni diranno è un’eccezione, ma tutta la lingua è un’eccezione e ridurla a una struttura “unisex” significa credere che le lingue artificiali siano più perfette di quelle naturali. Che fine hanno fatto l’Esperanto o l’Interlingua, il Latino sine flexione del matematico Giuseppe Peano? Ci stupiamo di fronte all’introduzione della “sindaca” e non ricordiamo che la “avvocata” già compare da decenni, se non da secoli, nella preghiera della Salve Regina: pochi ovviamente la recitano ancora.

ALCUNE SOLUZIONI...

Lingue come l’inglese fanno fatica, almeno per chi non è di quella madrelingua, a evidenziare il genere dei sostantivi, altre come il tedesco mantengono ancora il genere neutro e proprio non mi spiego perché la ragazza, das Mädchen, non debba appartenere al genere femminile.
La lingua è una “cosa” complessa e complicata, ma cercare di forzarne l’evoluzione è un po’ come volerla geneticamente modificare. Un anno fa sul sito ValigiaBlu è apparso un lungo articolo sul Difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo ma il problema a oggi non è ancora del tutto risolto: se un comune come Castelfranco Emilia ha deciso di introdurre l’uso diffuso dello schwa, sembra ridicolo il mutare il toponimo in Castelfrancə Emilia (e perché non Emiliə)? Matriarcato e patriarcato si sono alternati nella storia, e a partire da Johann Jakob Bachofen gli antropologi hanno sviluppato grandi e complesse teorie. Che cosa sono poi 3-4000 anni di frante alla evoluzione della nostra specie?

Nel 2008 il Parlamento europeo è stato una delle prime organizzazioni internazionali ad adottare linee guida multilingue sulla neutralità di genere nel linguaggio e nel 2018 è stato pubblicato il libretto La neutralità di genere nel linguaggio. Il Comitato unico di garanzia dell’Università di Verona nel 2021 ha pubblicato un documento intitolato Linee guida per il Linguaggio di Genere, documento che è stato fatto proprio da molti atenei italiani. Fortunatamente (e questa è una opinione personale) in nessuno di questi scritti si fa riferimento né agli asterischi né agli schwa.

Si potrebbe continuare, ma poiché non ho competenze specifiche in materia, mi fermo ricordando che le nostre origini di “indoeuropei” ci hanno condotti fin qui attraverso il greco e il latino. Perché dimenticarlo?

Vittorio Marchis

Vittorio Marchis è professore ordinario di Storia della scienza e delle tecniche al Politecnico di Torino.

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