Le ninfee di Sanremo. Perché il Festival continua, suo malgrado, a essere lo “specchio del Paese”

Le ninfee di Sanremo. Il Festival “specchio del Paese”

13.02.2021
di Massimo Scaglioni

Doveva essere il “Festival della ripartenza” – secondo gli auspici estivi, quando il virus era “clinicamente morto” (sic!) – ma si è trasformato, pian piano, nel “Festival dell’incertezza”, tutto all’insegna del dubbio. Un dubbio che ha lambito, a fine gennaio, la possibilità stessa di realizzarlo: “Sanremo, Amadeus pronto a lasciare” (Corriere della Sera, 27 gennaio). La vicenda ha campeggiato per una settimana sulle pagine dei giornali: il conduttore e direttore artistico minaccia di far saltare il banco dopo lo stop venuto (via tweet) dal Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che ha ricordato il divieto di presenza del pubblico nei teatri nazionali, ergo all’Ariston.

Tutta la vicenda – tocca dirlo – presenta i tratti surreali che caratterizzano spesso l’agire e il dibattere in Italia. Per questa ragione, ancora una volta, forse suo malgrado, a Sanremo tocca l’etichetta che si porta addosso da decenni, quella di “specchio del Paese”. Un luogo comune che, fino allo scorso anno, si sostanziava nei tratti leggeri di una cerimonia autoreferenziale (il “Festival della televisione generalista” prima che della canzone italiana), di un evento mediale che glorifica il sentirsi “comunità immaginata” del pop, sospesa per cinque serate a parlare di cantanti ma, anche e soprattutto, di tv, polemiche, gaffe e performance più o meno riuscite. Ma questa volta, naturalmente, “Sanremo71” arriva a un anno esatto dall’inizio della pandemia, sulla cui drammaticità (in termini di costi umani, sociali ed economici) non è qui il caso di tornare. E dunque il dibattito pre-Sanremo – un sempreverde fra gli ingredienti che lo precedono, ma ora immerso in un contesto inedito e triste – dal surreale ha virato al grottesco.

Il motivo del contendere è stato proprio il pubblico presente all’Ariston. Fra idee balzane fatte circolare ancora a gennaio (“la fantascientifica ipotesi di spettatori su una nave da crociera, una sorta di bolla Covid-free”, Il Giorno, 14 gennaio) e la frenetica ricerca di comparse (“Sanremo: Rai ‘arruola coppie di figuranti”, Ansa, 25 gennaio), colpisce che per settimane, anzi per mesi, sia mancata una parvenza di lucidità su come gestire un evento come il Festival in tempo di pandemia.

L’inatteso tweet di Franceschini è stato accolto come un fulmine a ciel sereno, con una certa, stupita incredulità anche da commentatori e professionisti. È suonato come un inspiegabile stop alle danze. Ma come, abbiamo ancora a che fare con una pandemia? Veri e finti ingenui hanno provato dimenticare che Sanremo non è un qualunque, ordinario programma televisivo, ma solleva almeno due questioni. L’una, pratica, molto nota a chi ha frequentato il Festival in loco, riguarda la complessa logistica di un teatro antiquato come l’Ariston, mai propriamente ammodernato, fatto di corridoi affollati e piccoli spazi: checché se ne dica, Sanremo non è paragonabile a un programma “da studio”, magari pre-registrato. Sanremo è, come si evidenzia ogni anno, un grande circo mediatico che porta con sé, fra le viottole del centro cittadino, migliaia di persone. Staff dei cantanti, tecnici della produzione, giornalisti (normalmente più di mille riuniti in sala stampa, altro ingrediente essenziale della rappresentazione sanremese), comunicatori vari, curiosi, affamati di selfie: tutti insieme appassionatamente, inseriti in una cornice organizzativa non sempre all’insegna del massimo rigore (personalmente, ricordo di aver passato la settimana con un accredito stampa che storpiava il mio nome e, soprattutto, la testata di riferimento, che diventa “cruciale” in momenti mitologici come le discutibili “votazioni della sala stampa”…)

C’è poi il lato simbolico, quello da cui presumibilmente partiva Franceschini: se è possibile gestire il gran carrozzone sanremese, a partire da “cinquecento persone in sala”, è certamente possibile gestire il pubblico in tutti i teatri e cinema d’Italia, che stanno soffrendo – e con loro tutta la filiera – una crisi pesantissima. Su quest’ultimo punto il dibattito ha preso derive inattese e persino creative, come se si trattasse di contrapporre la “cultura alta” (il cinema, il teatro) alla “cultura popolare”.

Ma in verità in gioco c’era tutt’altro, e qui torna alla ribalta la capacità del Festival di farsi “specchio del Paese”. Nel più bel libro scritto sulla gestione pandemica italiana, il sociologo dell’Università di Torino Luca Ricolfi usa la metafora delle ninfee che si duplicano in uno stagno per spiegare l’aritmetica del Covid, ovvero la sua dinamica di crescita esponenziale (La notte delle ninfee, La nave di Teseo). Il senso del pensiero di Ricolfi, in sintesi, è che il fattore cruciale nella gestione pandemica è sempre e comunque il tempo: l’azione di prevenzione, qualunque essa sia (lockdown, tracciamenti etc), deve essere tempestiva, e tergiversare costa carissimo. Cosa c’entrano le ninfee con Sanremo? L’analisi di Ricolfi ci spiega come, in tempo di pandemia, la serietà è un prerequisito necessario per tutti. Anche quando si organizzano grandi eventi culturali.

Mi è capitato di toccare con mano, a settembre, l’organizzazione della “77esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia”. Un’organizzazione draconiana, fatta di obblighi severissimi, controlli rigorosi, mascherine ovunque (anche all’aperto), un sistema digitale di prenotazioni e distanziamenti inflessibili, l’eliminazione del superfluo (ciò che non fossero i film). Insomma un’organizzazione molto seria, basata su protocolli rigidi definiti e preparati per tempo, che ha consentito – unico grande Festival cinematografico al mondo del 2020 – di tenere la manifestazione senza ignorare il contesto (che pure era migliore dell’attuale).

A un mese dal più grande evento televisivo e pop, invece, si discuteva piuttosto vagamente di barche e bolle. Un tweet ha dato la sveglia, e si è corsi a definire dei protocolli per un Sanremo obbligatoriamente diverso dal solito. Ma restano irrisolti due nodi strutturali che si trascinano da anni: la pretesa di un luogo più consono per il Festival, o quanto meno dell’ammodernamento dell’Ariston, come conseguenza dei molti danari che la Rai porta al Comune di Sanremo. E una struttura organizzativa e artistica stabile, sottratta ai cambi d’umore e alle bizze dei conduttori di turno che “sono (o dovrebbero essere) al servizio” del Festival, per quello che è il più importante evento TV per l’azienda di servizio pubblico (e che porta alla Rai utili per venti milioni di euro in pubblicità). Ora, a poche settimane dall’esordio, auguriamo ogni bene a questa edizione del Festival, ma confidiamo soprattutto che tutta questa vicenda inizi a insegnarci che il pressapochismo è il primo nemico che dobbiamo lasciarci alle spalle.

Massimo Scaglioni

Massimo Scaglioni insegna Storia dei media ed Economia dei media alla Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È responsabile del Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) e direttore del Master “Fare TV. Gestione, Sviluppo, Comunicazione”. Ha pubblicato numerose monografie e articoli sulla storia del broadcasting. È membro dell’editorial board delle riviste "View. Journal of European Television History and Culture", Comunicazioni Sociali, "Bianco e Nero", “Series”. È stato visiting professor presso Carleton University, Ottawa (Canada). Collabora con il Corriere della Sera. È attualmente principal investigator di un progetto di ricerca di interesse nazionale (Prin) sulla circolazione internazionale del cinema italiano.

Su VP Plus, il quindicinale online della rivista Vita e Pensiero, ha pubblicato gli articoli Aspettando gli Oscar 2020, Sanremo decostruito (da Sanremo), Nuovo Cinema Netflix, La religione (e l'Italia) come "brand".


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