LOGICA E CAMPAGNA ELETTORALE

Lo confesso, sono stato tentato. A lungo. Il miglior articolo possibile dal titolo Logica e campagna elettorale è un’ampia, suggestiva, eterea pagina bianca. Sarebbe stata anche un’opera di misericordia, o quantomeno di eleganza, il tralasciare un resoconto dettagliato, analitico, quasi morboso, degli infiniti lutti che la danza macabra dei nostri amati candidati sta infliggendo alle più elementari norme di razionalità condivisa. Ma scrivere bisogna, e allora che lo si faccia con passo sicuro; ad amarissima consolazione, lunedì, nessuno sentirà il bisogno di ricordare ciò che è stato detto. Noi invece constateremo che niente è stato davvero pensato.
Humpty Dumpty, una delle curiose creature de Alice nel paese delle meraviglie (Lewis Carroll era logico di valore), ammoniva in tono sprezzante che «Quando io uso una parola, essa significa esattamente quello che decido io … né più né meno». In effetti, che i significati delle parole che usiamo siano plastici e dipendenti dai contesti d’uso dei parlanti è ben noto. Ma lo spettacolo offerto nelle centinaia di ore di talk show politici è un inno all’ambiguità sistematica.
Prendiamo la parola “riforma”: chi non vuole fare riforme? Ma che cosa sono le riforme? Tutte le leggi nuove sono ipso facto riforme? Eppure, “riforma” (così come il verbo “riformare”) suggerisce una qualche forma di miglioramento intrinseco. In che cosa consista tale presunto miglioramento non è però dato sapere. Tutti vogliono andare in Europa (ma non ci siamo già? Dov’è, di preciso, l’Europa?) a rinegoziare, ridiscutere, far vedere che l’Italia conta, insomma cambiare le carte in tavola (e picchiarci i pugni su quella dannata tavola!). Come si sostanzi tutto questo, di nuovo, è mistero. Il trucchetto semantico è talmente banale che vien quasi da chiedersi come sia possibile che funzioni: si enuncia un obiettivo vago e generalmente positivo (chi vuole davvero contare di meno?) e si tralascia di indicare i mezzi con cui si decide di perseguire questo obiettivo.
È una declinazione di una delle patologie della razionalità che affligge il confronto elettorale: ovvero l’assenza programmatica della nozione di giustificazione oggettiva. Tutti vogliamo essere più ricchi, più belli, più vincenti, più felici. Come farete a fare in modo che le cose vadano così? Ovvero, perché devo credere che, una volta al potere, tu riuscirai a inverare le tue promesse? Le cantilene dei candidati oscillano quindi tra enunciati quasi tautologici («perseguiremo un intenso programma di riforme che miglioreranno le condizioni socio-economiche dei cittadini»: se ci pensate, il contenuto informativo di questo claim tende pericolosamente a zero) e enunciati totalmente privi di giustificazione (perché dovremmo credere che con voi al governo avremo l’indipendenza energetica?).
Ma i nostri eroi non temono alcunché e flirtano addirittura con uno degli argomenti più profondi e affascinanti della logica: l’autoreferenzialità. Si consideri la seguente frase «Questa frase contiene cinque parole». Essa è vera (in effetti è costituita proprio da cinque parole) e si riferisce a se stessa (un po’ come quando diciamo “io”. Noi diciamo “io” ma se fossimo candidati diremmo “noi” che fa fine e non impegna. Solo che alla lunga sembri il Mago Otelma). Ebbene, ho appena letto (giuro!) la seguente promessa elettorale: «Basta promesse!». Che assomiglia allo slogan «Noi non vendiamo slogan!».
I logici hanno temuto a lungo l’autoreferenzialità perché anticamera della contraddizione (è facile costruire enunciati autoreferenziali che sono veri e falsi). Ma i nostri futuri governanti non sembrano nutrire simili infantili paure. Anche se Walt Whitman diceva «Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono grande, contengo moltitudini», ci sarebbe da prestare un po’ di cautela. Già i medioevali sapevano che se il nostro discorso è contraddittorio (ovvero sosteniamo A e poi non-A) allora segue qualsiasi cosa, ovvero è banale. Tuttavia, in molti ambiti della vita quotidiana, può capitare di incorrere in contraddizioni. Per questa ragione, negli ultimi cinquant’anni sono stati sviluppati dei sistemi di logica che ammettono le contraddizioni ma evitano che il sistema risulti banale. Sembrerebbe però che i vincoli di razionalità che soggiacciono al dibattito elettorale siano riassumibili nella formula «vale tutto». Non c’è più distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso, tra ciò che è argomentato e ciò che è semplicemente asserito («questo lo dice lei»). Il mondo, con le sue infinite sfumature, la sua gigantesca mole di complessità, le profonde zone di indeterminazione, viene polarizzato secondo false dicotomie: o X o Y. E le altre ventiquattro lettere dell’alfabeto?
Forse era meglio la pagina bianca; il problema, però, sta tutto qui. Qualcosa deve essere scritto e qualcosa verrà scritto. Sulla pelle delle persone, molte delle quali, oggi, non sono ancora nate. Sebbene si dica che in logica non ci sia morale è però vero il contrario e cioè che la prima, fondamentale, responsabilità è di tipo intellettuale. È un dovere verso noi stessi e verso tutti coloro che ci candidiamo a rappresentare.
Ciro De Florio
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