Lungo il secolo… Filosofia del ’900: quale bilancio?

di Roberto Presilla
Donatella Di Cesare (La lettura 344, 1 luglio 2018) apre il supplemento domenicale de Il Corriere della sera con un’ampia carrellata sulle vicende filosofiche del Novecento. Compito ingrato, che può suscitare più facilmente dissensi che consensi (e forse è proprio questo il gusto, no? Come disse qualcuno ai tempi di Napoleone III, oggi si fa spettacolo con gli uomini di spirito perché le bestie si divertano). Di Cesare sa bene che la discussione tra pari “intorno all’intero” cui si richiamava Silvano Petrosino (VP Plus 19, Contro i tiranni torna la filosofia) si nutre di argomentazioni razionali (come sottolinea Dario Antiseri, VP Plus 20+ L'urgenza di una educazione generalizzata all'argomentazione filosofica) ma anche di simpatie, gusti, inclinazioni, che a volte diventano tifo militante.
Non sorprende quindi che altri filosofi, affrontando lo stesso tema, possano indicare altre priorità o tracciare vie diverse. Sarebbe difficile tuttavia contestare l’importanza di Heidegger o Wittgenstein, anche se sicuramente chi ha una formazione diversa legge in altro modo il senso del lavoro svolto dal Tractatus alle Ricerche. Insomma una ripresa del dibattito non può che sottolineare differenze di prospettiva o di accento, pieghe diverse, applicando all’oggi l’intuizione di Deleuze sul barocco. In questa sede, più che proporre un’alternativa, mi limito a segnalare alcuni punti che rimangono in ombra nella rapida ricostruzione – con cui sono d’accordo – proposta da Di Cesare. Dei non-detti che, Freud docet, a volte sono altrettanto suggestivi di quanto viene effettivamente detto o, se si preferisce la distinzione del Tractatus, le cose che vengono mostrate mentre se ne dicono altre.
Se il nostro secolo filosofico comincia con la crisi del soggetto, dominatore “da Descartes a Kant”, se i maestri sono Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Freud, se Heidegger e Benjamin sono centrali per capire il Novecento, che ne è di Hegel? Il nome che manca, ma a cui si allude, è quello del filosofo a cui molti di questi nomi sono collegati, come ha sottolineato Karl Löwith. In larga misura la filosofia a cui reagiscono Marx, Kierkegaard e Nietzsche è proprio quella hegeliana: eppure sarebbe difficile pensare che l’autore della Fenomenologia dello spirito – quello a cui si deve l’idea oggi superata che la modernità cominci con Descartes – parli del soggetto in modo ingenuo. Del resto la sua filosofia ha avuto, tramite Kojève, influssi molto ampi anche su Lacan e gli sviluppi della psicoanalisi.
A Frege va meglio di Hegel, visto che viene nominato, ma solo come “precursore” di Wittgenstein. La sua “analisi logica” è in realtà la fine dell’analisi logica che ci hanno insegnato a scuola: è una radicale divaricazione tra logica e grammatica, su cui peraltro Wittgenstein insisterà a lungo. Ma ancora più interessante è il suo punto di partenza. Frege non si occupa né di soggetto né di politica: ci chiede “che cosa sono i numeri?”. È una domanda metafisica, che nasce da una rivoluzione (anch’essa in larga parte cominciata nel XIX secolo) culminata nei grandi risultati logici e matematici del Novecento. Se guardiamo con un po’ d’attenzione, è difficile identificare il “secolo breve” solo con la tecnica distruttiva della bomba atomica o con il dominio dei media. Entrambe le questioni vanno affiancate ai (o meglio, inquadrate a partire dai) cambiamenti radicali avvenuti in logica e matematica, il frutto dei quali è in parte la stessa newsletter su cui viene pubblicato questo testo.
La rivoluzione digitale da un lato alimenta, dall’altro eccede sia il dominio dei media sia la crisi del soggetto. Porta nuovi modi di mettere ordine (o disordine) nella realtà ed è quindi un forte segnale di discontinuità. Forse più forte di quanto lo siano i “maestri del sospetto”: si potrebbe sostenere, infatti, che la loro critica secolarizzante non sia che il movimento radicale ed estremo della modernità, il suo volto ipermoderno. Di qui si scorgono due zone lasciate in ombra, su cui dirigere un pochino di luce. La prima riguarda quanti hanno provato a prendere sul serio la questione logica e matematica: oltre ai maestri del primo Novecento, si pensi – per capirci – a Putnam, Davidson, Dummett (per non parlare di Quine). La loro riflessione conferma i limiti dell’ormai abusato schematismo “continentale vs analitico”. Un’altra zona riguarda quei pensatori (per chi vuole dei nomi: Girard, Taylor…) che hanno provato a leggere la complessità della nostra epoca a partire dall’intreccio tra sacro e secolarizzazione. Già, perché la fede, definita da Di Cesare “salto rocambolesco nel non credibile” senza più appigli (curioso che la definizione richiami un vecchio, vecchissimo adagio), è un’altra grande figura del pensiero novecentesco. Una figura che qualcuno pensa di liquidare come “assurdità per definizione”, ma che invece ci permette di guardare con occhio diverso la stessa vicenda moderna, ossessionata dal mito dell’assoluto. La finitezza che oggi avvertiamo e che Di Cesare giustamente sottolinea è certo un effetto della crisi della modernità. Ma non è contrapposizione alla fede, che ne è anzi da sempre meditazione accorta, trasmessa mediante la testimonianza, che vive di razionalità non assoluta, ma relativa al rapporto tra chi parla e chi ascolta.
Forse non è un caso che, mentre Foucault si spingeva “nei sobborghi rimossi della follia”, un suo amico e contemporaneo, De Certeau, connetteva follia e mistica, svelando un’altra zona d’ombra. De Certeau ha contrapposto l’esperto, integrato al corpo sociale a cui vende un sapere (supposto) in cambio di autorità, al filosofo, che con lo sguardo rivolto all’universale insinua il dubbio nei saperi consolidati, identificando in Wittgenstein il filosofo che più radicalmente ha criticato gli esperti (e anche i filosofi, se scelgono di esser tali). Qui forse si gioca la partita del futuro: i nomi da ricordare saranno – come è già accaduto in passato – quelli capaci di bucare lo schermo dei rapporti sociali e dei giochi di potere per guardare all’uomo in quanto tale. A ben guardare, più che a un secolo lunghissimo, la filosofia del Novecento appartiene a un gioco lunghissimo. Che vale ancora la pena di giocare.
Roberto Presilla
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