MA IL ROSARIO È ITALIANO?

Il rosario sta tornando di moda? Non vedo nell’ansioso Salvini un recitante paziente di preghiere insistenti. L’immagine sua cade più nel capitolo “baciapile”, a cui appartiene una fede che vuole anzitutto mostrarsi, fare di sé puro spettacolo. In realtà il rosario contiene qualcosa di molto più ampio e universale. Più che essere il simbolo di una fede è il simbolo della pietà popolare che accomuna molte fedi. L’idea che i cristiani abbiano il monopolio della preghiera richiede una certa cecità al mondo. Soprattutto se si tratta di questo strano oggetto antichissimo che è il rosario.
Il cerchio di grani è uno degli strumenti che si ritrova negli scavi dell’Indo di tremila anni fa, e poi storicamente nell’induismo: 108 grani da snocciolare per liberarsi – recitando i mantra – dalle 108 passioni che attanagliano l’animo umano. Lo si ritrova nel buddhismo con lo stesso numero di grani e lo stesso fine ascetico, poi è Jalal ad-Din Rumi, il mistico afghano, ad assumerlo in Asia centrale come simbolo del cerchio della danza estatica dei dervisci. A Konya sarà lui stesso a passarlo ai monaci bizantini, che lo tradurranno nelle pratiche dell’esicasmo. Saranno i poeti provenzali e del dolce stil nuovo a documentarne la pratica, e a trasformarla nelle rime delle proprie composizioni con un accento polemico e sfottente nei confronti dei monaci.
E poi il rosario arriverà alla Chiesa di Roma, che poco prima della battaglia di Lepanto ne farà il simbolo della fede nella Madonna. Le due flotte contrapposte, quella turca e quella cristiana, pregheranno entrambe prima della battaglia servendosi dello stesso strumento. I musulmani vi ripeteranno i novantanove nomi di Allah, i cristiani le stazioni della Passione. Tutt’oggi chi viaggia in Medio ed Estremo Oriente sa bene come il rosario sia uno strumento visibilissimo nelle mani soprattutto maschili. In Grecia diventa il koboloi, un braccialetto “scacciapensieri” che però denuncia immediatamente la sua origine bizantina. E lo stesso strumento è al collo o nelle mani dei monaci buddhisti birmani, singhalesi, tailandesi, vietnamiti. In India è composto dai semi dell’albero di Buddha. E lo si trova ad avvolgere le statue delle divinità hindu. Il senso del suo uso è però costante. È uno strumento che serve a ripetere delle formule, delle invocazioni, delle preghiere. Serve a tenere il conto, “perdendolo”, della quantità di ripetizioni.
È un “neverending”, un cerchio senza fine, che riassume il senso delle circum-ambulazioni intorno a templi, montagne sacre, stupa, alberi sacri. È il simbolo dei pellegrinaggi circolari, il giro intorno alla Kaaba della Mecca, o intorno al Monte Kailash sacro a induisti e buddhisti, ma anche il simbolo del pellegrinaggio a Gerusalemme. Lo si ritrova nella circum-ambulazione intorno al santuario ebraico di Djerba in Tunisia. E in tutte queste pratiche popolari ha solo un senso: che l’insistenza umana dà dei frutti. Che possono essere ascetici, liberatori o “convincenti” nei confronti della o delle divinità. Gli dei si fanno convincere dalla pietà popolare, vengono a patti con le necessità, il grido di implorazione costante.
Il rosario si collega allo scandire del respiro, del battito cardiaco, del passo umano, costituisce la sorgente del ritmo che trasforma le invocazioni islamiche dei Sufi turchi in un singhiozzo, “Uh, Uh”, che significa “Lui, lui”. Cambia l’essere umano in una metamorfosi che ricorda altre pratiche sciamaniche, in Amazzonia come in Siberia. Il corpo diventa un automa di preghiera, svuota la coscienza, quasi un oggetto che ripete lo stesso suono. C’è in questo un germe di eternità: il corpo così entra in una vibrazione che è parallela al tempo, annullandolo.
Il rosario in buona parte delle pratiche porta a un’estasi, è il modo con cui la mente si svuota e raggiunge un altro stadio, è l’inizio del viaggio verso un livello diverso. La Chiesa romana ne ha avuto un po’ paura, ha interrotto l’esicasmo con dei Gloria, che servano a troncare il respiro continuo. È una devozione che ha rinunciato a trasformare il corpo dell’orante.
Ogni religione ci tiene a distinguersi dalle altre, a non ammettere di usare lo stesso strumento e pratiche simili. Gli ortodossi trasformano il rosario islamico, costruendolo con materiali che non facciano rumore, stoffe, tessuti. C’è nell’universalità dell’uso del rosario qualcosa che turba i credenti di ogni religione. Insieme a Lucetta Scaraffia, qualche anno fa tentammo alla Reggia di Venaria di raccontare questa storia – Pregare. Un’esperienza umana (approfondita nel libro) – sottolineando il miracolo di questa comunanza. Per gli antropologi è una prova che l’insistenza umana nel chiedere al cielo è un’abitudine con caratteri universali. Raccontarlo sarà sempre un po’ scomodo, come ogni cosa che richiama gli esseri umani ai loro caratteri comuni.
Franco La Cecla
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