NEL TERZO DECENNALE DI MANI PULITE

di Gabrio Forti
Gli anniversari servono, specie se interpretati come ‘ricorrenze’ che, appunto, ri-corrono. Ri-presentandosi costringono non solo al ricordo e all’analisi, ma soprattutto a una salutare comparazione tra le diverse stagioni in cui ci si è confrontati con l’esperienza da rievocare. Un confronto dal quale dovrebbe trarsi il chiarimento degli errori commessi nell’affrontarli in passato e dei nuovi rimedi da inventare. Quello che ricorre in questi giorni, più che il trentennale della c.d. ‘operazione mani pulite’, è dunque soprattutto il terzo suo decennale. Una ulteriore occasione per ri-addensare le attenzioni retrospettive – peraltro mai spente – sulla vasta azione della magistratura, soprattutto milanese, contro la corruzione ‘sistemica’, la cui data di inizio ufficiale viene solitamente collocata il 17 febbraio 1992. Fu quello il giorno dell’arresto, ‘in flagranza di tangente’, di Mario Chiesa su denuncia di Luca Magni, il titolare di una piccola impresa di pulizie che non era più in grado di sostenere il 10% di tangente anticipata da che l’esponente del partito socialista milanese e presidente del pio Albergo Trivulzio, «voleva subito, appena si attivava l’appalto, mentre noi i soldi li vedevamo molti mesi dopo».
Il confronto tra i ‘decennali’ offre scorci illuminanti, anche solo considerandone certi caratteristici ‘prodotti legislativi’, fedeli rispecchiamenti di come quelle vicende sono state ogni volta diversamente rielaborate nella comunicazione pubblica.
I TRE ANNIVERSARI E LE RISPOSTE LEGISLATIVE
Il 2002 (governo Berlusconi) aveva visto già largamente esauriti o artatamente soffocati gli entusiasmi per le inchieste giudiziarie degli anni ’90. Sembrava dimenticato l’effetto che, secondo qualificati commentatori economici, esse avevano avuto di propiziare un ritorno in Italia degli investimenti stranieri, con il relativo salvataggio da un default di tipo argentino ormai alle porte. Parimenti sembrava ormai erosa l’aura di luminosa integrità di cui quell’energico scoperchiamento del malaffare aveva circondato il nostro Paese sulla scena internazionale, al punto che nell’ambito del programma Phare di ampliamento dell’Unione, la Commissione europea aveva affidato proprio all’Italia il compito di addestrare nella lotta alla corruzione le istituzioni dei futuri paesi membri. Allontanatisi da quello spirito e sospinti da una ventata di deregulation neoliberale, venne approvato il decreto legislativo n. 61, con il quale fu pressoché azzerata la capacità di contrasto dei reati societari (ad es. il falso in bilancio) che, generando, con la costituzione di ‘fondi neri’, la provvista delle imprese per il pagamento delle tangenti, erano prodromo essenziale (e quindi anche importante indizio investigativo) dei reati di corruzione. Di lì a poco, nel 2005, sarebbe stata poi introdotta la legge c.d. ex-Cirielli che tra i suoi effetti avrebbe avuto una drastica riduzione dei termini di prescrizione specie per i reati – proprio quelli dei colletti bianchi – non ascrivibili allo stereotipo del criminale come outsider sociale per lo più recidivo. Una riforma che diede anche la stura alla interminabile e devastante stagione di conflitti tra le forze politiche e la magistratura, proprio sul tema della prescrizione.
Nel secondo decennale (governo Monti) la riforma c.d. Severino della legge n. 190, sia pure con vari limiti e incongruenze, ha rappresentato un organico intervento migliorativo degli strumenti di contrasto ai delitti contro la Pubblica Amministrazione.
Nel panorama normativo dell’attuale terzo decennale (governo Draghi) oltre che la riforma della giustizia in cantiere (peraltro pensata soprattutto per accorciare i tempi dei procedimenti), ancora campeggia, almeno sui temi in questione, la c.d. legge Bonafede n. 3 del 2019, (governo Conte I), la cui stretta repressiva, anche a causa di vari difetti tecnici (per non parlare della discutibile riforma della prescrizione), non sembra aver segnato reali progressi nella prevenzione e contrasto di corruzione e maladministration.
GARANTISMO E GIUSTIALISMO: IL BINARIO MORTO
A ciascuna delle tendenze politico-legislative e giudiziarie espresse in queste tre stagioni abbiamo sentito spesso affibbiare due appellativi di segno opposto, ma parimenti omologhi ai grossolani slogan giornalistici che in tanti anni hanno accompagnato le rivelazioni sul malaffare: garantismo e giustizialismo. Espressioni linguistiche ‘corrotte’ di per sé. visto che un sentore di corruzione sempre aleggia là dove tutto si mischia e si confonde: ruoli istituzionali e sociali, identità, responsabilità e, appunto, significati delle parole. Il calare repentino di questi due termini nel dibattito pubblico ha sempre l’effetto di distogliere l’attenzione dai problemi seri e quasi sempre complessi, su cui soltanto andrebbe concentrata la ricerca di soluzioni.
In realtà è proprio nella forza di attrazione di questa martellante accoppiata linguistica manichea che potrebbe trovarsi almeno uno dei fili della matassa di ragioni che hanno fatto delle inchieste giudiziarie degli anni ’90 una «occasione mancata». Proprio come titola il libro, pubblicato poche settimane fa, da Piercamillo Davigo, uno dei maggiori e più noti protagonisti di quelle inchieste (L’occasione mancata. Mani pulite trent’anni dopo, 2021).
Una volta scaricata, di fatto, sulle spalle della risposta punitiva ogni reale prospettiva di rimedio a problemi di illegalità (dalle origini spesso profonde e strutturali), è dal solo esito giudiziario che si trarrà la rivelazione della verità sull’accaduto e sulle relative responsabilità. Chi non sia stato condannato penalmente non sarà dunque semplicemente un soggetto la cui colpevolezza in quella sede non è stata provata ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ (o che abbia potuto beneficiare del decorso della prescrizione), ma un innocente a tutto tondo, in quanto tale degno di riappropriarsi a pieno titolo delle leve dello Stato o dell’economia, ad onta di responsabilità sociali, morali, disciplinari o deontologiche anche gravissime. Ci si troverà dunque appiattiti sulla stessa logica ‘binaria’, in bianco e nero, che trova la sua spicciola proiezione comunicativa nella perversa coppia semantica del ‘giustizialismo’ e del ‘garantismo.
Di analoga semplificazione binaria può dirsi sia stata affetta in questo trentennio trascorso la ricerca ora nel corrotto, ora nel corruttore del primum movens della dinamica corruttiva, incartandosi giudiziariamente e legislativamente nello schema rigido di una concussione a responsabile unico contrapposta a una corruzione con almeno due partner avvinti nel bozzolo omertoso della collusione affaristica. Nonostante la frequenza di situazioni concrete nelle quali la c.d. ‘vittima concussa’ risultava in realtà un soggetto privato ben lieto di soggiacere alle pressioni del pubblico amministratore, da cui poteva lucrare vantaggi competitivi rispetto a chi fosse rimasto escluso dal giro dei beneficiari di illecite erogazioni pubbliche.
Il quadro così delineato non è solo la descrizione di un fenomeno congegnato per miniaturizzare e facilmente liquidare le responsabilità – ben più vaste e profonde di quelle penali – degli attori coinvolti nel malaffare. Il preminente governo giudiziario del problema della corruzione, oltre che assicurare una patente di integrità a tutto campo a chi sia stato abbastanza abile da sfuggire alle maglie della condanna, offre soprattutto l’inestimabile vantaggio di deresponsabilizzare un’intera classe dirigente dal compito tanto difficile quanto doveroso di intervenire su stabili contesti di rischio-corruzione che tendono a riprodursi a prescindere dal personale politico e amministrativo che venga a trovarsi di volta in volta nelle stanze dei bottoni. Ed ecco perché, grazie al feticcio punitivo, messo al centro con pari fervore (e solo apparente contrapposizione) dai c.d. garantisti e giustizialisti in questi tre decenni, si è avuto buon gioco a eludere le molte e autorevoli soluzioni al problema della corruzione avanzate su piani del tutto estranei alla sfera penale. Quali ad es. quelle prospettate dal Rapporto del Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione istituito dal Presidente della Camera dei Deputati nel 1996 (ora in La lotta alla corruzione, 1998).
LA LOTTA ALLA CORRUZIONE
Tra le ragioni principali della corruzione, in quel documento si identificava la debolezza delle amministrazioni per l’assenza o l’insufficienza delle competenze professionali. Il che costringe i soggetti pubblici ad affidarsi a figure esterne per tutte le attività che richiedano l’opera di specialisti e, specie nel campo degli appalti pubblici, per la stessa valutazione dei progetti dei professionisti. Si rilevava in particolare come fosse andata smarrita l’altissima professionalità dei corpi tecnici dello Stato, un tempo capaci di progettare opere e realizzare programmi di grande complessità e anche di attrarre il personale più qualificato.
L’esigenza indefettibile di un potenziamento culturale, professionale e, dunque, anche etico, delle amministrazioni pubbliche è del resto la condizione necessaria per attuare una ulteriore aurea indicazione espressa dal Comitato di studio; il passaggio dai controlli di processo ai controlli di prodotto, ossia da un sistema tradizionale di controlli amministrativi, caratterizzato dalla netta prevalenza delle verifiche preventive e di legittimità, a forme più moderne di controllo interno e successivo sulla gestione.
Queste e altre misure avrebbero però breve respiro senza un altro rimedio di fondo, tanto arduo da realizzare quanto essenziale per l’integrità ed efficienza della pubblica amministrazione, per la prevenzione della corruzione e per il progresso di tutti: la capacità di liberarsi da quelle che il grande Cesare Beccaria chiamava le «funeste ed autorizzate ingiustizie» che nascono dallo «spirito di famiglia», ossia dal considerare «piuttosto la società come un'unione di famiglie che come un'unione di uomini». Un clima soffocante che pone ognuno in balia della «subordinazione di comando», alla potestà del capo ‘famiglia’ (alla cosca, alla clientela, alla camarilla, alla conventicola, al gruppo degli ‘amici’, ecc.), a quel punto arbitro esclusivo del riconoscimento di diritti e di capacità.
Un clima a cui molti giovani decidono di non sottostare, preferendo cercare altrove – con drammatico impoverimento della nostra società – un tale riconoscimento, in luoghi dove lo «spirito repubblicano», di «libertà ed uguaglianza», «non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche». Proprio quei giovani che il Presidente Mattarella, in un passaggio del suo recente discorso di giuramento, ha invitato a sentire «sulle proprie spalle la responsabilità di prendere il futuro del Paese, portando nella politica e nelle istituzioni novità ed entusiasmo».
Gabrio Forti
Guarda tutti gli articoli scritti da Gabrio Forti