NO EDUCATION. I Pink Floyd e la cultura del '900

di Paolo Cesaretti
“We don't need no education / We don't need no thought control / […] / Hey! Teachers! Leave them kids alone / All in all it's just another brick in the wall / All in all you're just another brick in the wall”. Era il 1979 quando queste parole furono cantate per la prima volta da un coro di fanciulli della Islington Green School di Londra, sul ritmo insieme elementare ed arcano concepito dal loro autore Roger Waters (n. 1943) per The Wall, il “concept album” dei Pink Floyd che Waters lasciò nel 1985, dopo averne fatto parte per venti anni.
Il brano, pur sempre seducente, ha oggi smarrito non poco della originaria carica di provocazione eversiva e anti-istituzionale ancora presente nel film di Alan Parker, Pink Floyd The Wall (1982), dove il coretto infantile si trasforma poco a poco in una banda violenta che distrugge e incendia un edificio scolastico. Another Brick in the Wall è così divenuto una colonna di accompagnamento per usi polivalenti, a partire da quelli, decisamente istituzionali, legati alla celebrazione della caduta del Muro di Berlino (1989). Al concerto di Roger Waters The Wall - Live in Berlin (luglio 1990) parteciparono almeno 500.000 persone. La cifra non deve stupire: il gigantismo ha sempre caratterizzato la produzione del gruppo, con o senza Waters.
I Pink Floyd si affermarono a partire dalla fine dei roaring sixties, quasi in simultanea con il vuoto che seguì allo scioglimento dei Beatles, rimasti sempre ineguagliabili anche per il loro impatto sui media e sul costume. Altri gruppi dell’epoca ebbero forse superiori qualità vocali (si pensi al marchio di Robert Plant sulla produzione dei Led Zeppelin), tecniche (Emerson, Lake and Palmer, per dire) o compositive (l’epoca d’oro di Brian Wilson con i Beach Boys era passata, ma interrogavano il loro talento Pete Townshend con The Who e Peter Gabriel con i primi Genesis); quanto alla prassi esecutiva, strade diverse e complementari erano perseguite da David Bowie con le sue prime colorate stravaganze e da Jim Morrison, guida dei Doors, con il suo ostinato cupio dissolvi.
Resta però che solo l’inconfondibile e compatta ispirazione dei Pink Floyd – al suo massimo proprio negli anni ’70 - ha attratto, nel corso dei decenni, artisti dei più diversi media espressivi, dal cinema (Michelangelo Antonioni) al balletto (Roland Petit) alle arti visive, alla letteratura. Persino il mondo conservatore dell’arte e dell’archeologia antiche cedette alle loro sirene: le parti migliori del film di Adrien Maben Pink Floyd: Live at Pompeii furono girate (era il 1971) nell’Anfiteatro romano di Pompei, per speciale concessione chiuso al pubblico, mentre il gruppo eseguiva i suoi brani (su tutti Echoes) dal vivo, invadendo le rovine con un apparato di registrazione e strumentazione allora inaudito e stupefacente ancor oggi. Si trattava di una deliberata “anti-Woodstock”, dove abili inquadrature conferivano ai quattro membri della band una speciale connotazione statuaria e plastica, uno “splendido isolamento” che contribuiva alla loro fama di “divini” nonché di “intellettuali del rock”.
Gigantismo, talento sperimentale e antiquarianism, sin dal titolo (traducibile in “Le loro vestigia mortali”), caratterizzano anche la mostra Pink Floyd: Their Mortal Remains. Dopo un primo allestimento presso l’illustre Victoria & Albert Museum di Londra, è visitabile al MACRO di Roma fino al 27° maggio. L’aura da “evento imperdibile” può infastidire, ma il lavoro dei curatori Aubrey “Po” Powell e Paula Webb Stainton, con l’aiuto dei membri della band (per una volta senza le tipiche bizze tra Waters e David Gilmour, n. 1946, suo “duellante” per l’egemonia nel gruppo) è eccellente. Ambienti bassi per esporre quaderni, spartiti, posters; spazi alti per dare spazio ai famosi pupazzi giganti e agli inflatables, come il maiale volante di Animals; qui penombre dense, lì luci chiare, ad esempio per le ricostruzioni sulla grafica delle copertine, come quella memorabile di Wish you were here dove per un attimo venne davvero dato fuoco a uno stuntman professionale. Una “filologia del presente” che rende ragione a un percorso espressivo ambizioso e ineguagliato, tanto che qualcuno è giunto ad accostare i Pink Floyd a Richard Wagner per la ricerca di espressioni artistiche e di prassi esecutive a loro modo assolutizzanti e totali.
Soprattutto efficaci le prime sale della mostra, dedicate alla cultura visiva oltreché musicale a Londra negli anni ’60. All’epoca i futuri cantori del “no education” alternavano i loro primi concerti a studi che non erano musicali, semmai di grafica, design e architettura, presso la Regent Street Polytechnic School of Architecture (ora University of Westminster). Fu lì che incontrarono gli artisti e i grafici che li accompagnarono in tutta la loro carriera – del resto l’integrazione tra musica imparata e proiezioni di effetti cromatici su soffitti e pareti era una caratteristica della loro prima produzione “psichedelica”. Serve ricordare che il leader del gruppo agli esordi, il leggendario Syd Barrett (1946-2006), poteva diventare un pittore importante?
E però. Come per tante altre figure degli anni ’60 e ‘70, vale anche per i Pink Floyd la constatazione che i frutti della education possono essere contestati solo da chi li ha gustati. Tanto più che quella stessa contestazione, sin d’ora musealizzata, diviene oggetto di nuova education. Quanto poi al thought control, la mostra celebrativa e “immersiva” (sic) è condizionante persino nei modi della visita. Bisogna portare le cuffie, e a ogni passo che muovi ecco che scatta l’adatto accompagnamento musicale dal repertorio del gruppo. Senza cuffie l’articolato percorso espositivo non è neppure fruibile.
Le forzature politiche e istituzionali oggetto della denuncia vengono in tal modo a riflettersi, ribaltate e amplificate, nell’esperienza artistica? Il “passo d’addio” della mostra è un’esecuzione tardiva e unitaria (2005) di un pezzo anch’esso del 1979, ma su musica di Gilmour: Comfortably numb, “Piacevolmente stordito”. Pare un’ironia della sorte.
Paolo Cesaretti
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