Cinema Netflix

Nuovo Cinema Netflix

03.11.2018

di Massimo Scaglioni

Minaccia o opportunità? Si è molto discusso, nelle scorse settimane, sull’inedito ruolo giocato dalle piattaforme di streaming on-line – il gigante Netflix in primis – nella trasformazione della produzione e della distribuzione di film. Di fronte ai cambiamenti nel sistema dei media, si registrano come di consueto reazioni piuttosto accese, ispirate a partigianerie e interessi divergenti, e caratterizzate da acritico entusiasmo per il “nuovo” contrapposto a una timorosa resistenza nei confronti di ogni forma di cambiamento. Insomma, riecco in trincea gli “apocalittici” e gli “integrati”. Se lasciamo da parte entusiasmi e resistenze per assumere una prospettiva più analitica, dovremmo innanzitutto riconoscere che l’innovazione nel campo dei mezzi di comunicazione non avviene per strappi repentini, ma attraverso mutazioni graduali, affiancamento e sovrapposizione di “nuovo” e “tradizionale”, accelerazioni ma anche inerzie.

Quest’anno, la 75° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia
è stata teatro di un’importante momento di accelerazione. Contrapponendosi con vigore alle scelte editoriali adottate a Cannes dal direttore Thierry Frémaux, che aveva sbarrato le porte del Festival a opere che non avessero previsto una regolare distribuzione nelle sale cinematografiche francesi, la rassegna guidata da Alberto Barbera ha invece portato a Venezia cinque film e un documentario targati Netflix, di cui tre pellicole in concorso. Al di là delle tradizionali schermaglie fra i due Festival, la contrapposizione Venezia-Cannes sul ruolo di Netflix e degli altri colossi dello streaming globale, come Amazon Video, tocca, in alcuni punti cruciali, il presente e il futuro dell’industria cinematografica. A cominciare dalla definizione di “cosa sia” un film, e dalla rilevanza della sala come finestra primaria e privilegiata di sfruttamento del prodotto cinematografico. Proviamo a riassumere, proprio a partire dai titoli dei film presentati, come si gioca questa partita, e che esiti potrà avere.

Sulla mia pelle (di Alessio Cremonini) ci parla soprattutto dei margini di opportunità che il nuovo ecosistema digitale globalizzato – caratterizzato dalla presenza di giganti come appunto Netflix e Amazon, ma, in prospettiva, anche Apple e Facebook e – chissà – un nuovo soggetto coi piedi piantati in Europa, ancora tutto da costruire… – può offrire a un cinema nazionale come quello italiano che, pur nel solco di una gloriosa tradizione, fatica sempre più a fare i conti con la sua progressiva marginalità (nel 2017 il nostro cinema ha perso importanti quote di mercato, con un numero crescente di film prodotti e decrescente di spettatori, tutti segni evidenti di una drammatica crisi di sistema). Se depuriamo lo sguardo dalle incrostazioni ideologiche che definiscono “film” solo ciò che esce primariamente/esclusivamente in sala, e ci affidiamo all’analisi dei dati, non possiamo che riconoscere che l’operazione del film di denuncia civile dedicato al tragico caso di Stefano Cucchi è decisamente riuscita. Il film, targato Lucky Red e Netflix, ha intrapreso un percorso distributivo peculiare, non del tutto nuovo ma, per la prima volta, balzato sotto i riflettori di diverse discussioni polemiche, che hanno riguardato tanto il contenuto quanto – ed è quello che ci interessa di più - la sua circolazione: il 12 settembre, a pochi giorni dalla conclusione della Mostra veneziana, il film è stato reso disponibile in streaming per gli abbonati a Netflix e, contemporaneamente, in un selezionato numero di sale nazionali. La disponibilità digitale non ha ucciso il film in sala. Al contrario, nella prima settimana di programmazione la pellicola di Cremonini ha raccolto un incasso di quasi 250mila euro. L’aspetto interessante del dato è rappresentato dal fatto che il numero limitato di sale (84) fanno del film uno dei migliori risultati in relazione alla media per schermo, anche superiore a blockbuster americani distribuiti in centinaia di cinema. Dopo due settimane, il film ha sfiorato il mezzo milione di euro di ricavi in sala: una cifra più che discreta per un prodotto non certamente facile. A questi dati va sicuramente aggiunto il fatto che On my skin entra in un catalogo di film on-demand accessibile nei diversi Paesi in cui Netflix è attivo, dagli Stati Uniti a Singapore, aprendo una finestra di cinema italiano in 190 paesi del mondo.

The Ballad of Buster Scruggs, il “western antologico” dei fratelli Ethan e Joel Coen, premiato a Venezia per la migliore sceneggiatura, ci parla invece più direttamente dei confini di contenuto e di formato che “un film” deve, o dovrebbe rispettare, e della sempre più tenue separazione fra cinema e serialità. L’automatismo con cui immaginiamo che “un film” presenti una durata standard inferiore alle due ore è una di quelle inerzie che non considera quanto, in realtà, lo stesso cinema abbia variamente sperimentato, nella sua storia, in termini di formati ma anche di serialità (dai serial movies degli anni Trenta e Quaranta agli odierni blockbuster dedicati agli eroi della Marvel, da Spiderman a The Avengers). I Coen, così come David Lynch, Martin Scorsese o Steven Spielberg, sono straordinari “autori” e creatori di contenuti audiovisivi che si sono cimentati, in questi anni, proprio sui terreni di confine fra serialità, televisione e cinema. Buster Scruggs, nello specifico, viene concepita come una “serie antologica” (ovvero caratterizzata da storie differenti di episodio in episodio) ma “diventa un film” per opportunità: questa “mutazione” consente di portare il prodotto ai Festival, e l’uscita in sala – sebbene molto limitata – consente la partecipazione alle selezioni per gli Academy Awards, gli Oscar. L’assetto di un’industria sempre più integrata e “convergente”, e l’emergere di operatori innovativi (da HBO a Netflix e Amazon) rappresenta la premessa per operazioni di questo tipo.

Roma, il bellissimo film di Alfonso Cuaròn premiato col Leone d’Oro, e The Other Side of Wind, il bizzarro e incompiuto film postumo di Orson Welles, portato a termine da Peter Bogdanovich proprio grazie al finanziamento di Netflix, rappresentano due lati differenti di una medesima operazione di legittimazione culturale. La conquista del primo Leone da parte di un film prodotto da una piattaforma di streaming, e distribuito, oltre che on-line, anche in alcune sale a dicembre di quest’anno (secondo quel modello di affiancamento di finestre distributive descritto poco fa), rappresenta un’importante svolta sul piano soprattutto simbolico: una società globale da undici miliardi di dollari di fatturato, facilmente inquadrabile con l’etichetta dell'“imperialismo culturale americano”, e un piccolo, delicatissimo e personale film di produzione messicana, destinato a quella “nicchia globale” di spettatori che amano e seguono il cinema d’autore (ed ecco, qui, un altro spazio, un’altra occasione per il nostro cinema…).

La bellezza del cinema sta, fin dalle sue origini, nelle sue differenze. La tecnologia e il rinnovato assetto di un’industria sempre più globale offrono opportunità nuove da sfruttare, ed è ingenuo pensare di poter “congelare” un sistema distributivo irrigidito nelle convenzioni del passato. Al di là delle resistenze, la sala cinematografica resterà certamente un luogo essenziale di esibizione, promozione, “eventizzazione”, ma ciascun film dovrà, sempre più, trovare la sua particolare strada per raggiungere il suo pubblico. Nell’interesse dell’industria (anche di quella italiana), e in quello di noi spettatori.

Massimo Scaglioni

Massimo Scaglioni insegna Storia dei media ed Economia dei media alla Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È responsabile del Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) e direttore del Master “Fare TV. Gestione, Sviluppo, Comunicazione”. Ha pubblicato numerose monografie e articoli sulla storia del broadcasting. È membro dell’editorial board delle riviste "View. Journal of European Television History and Culture", Comunicazioni Sociali, "Bianco e Nero", “Series”. È stato visiting professor presso Carleton University, Ottawa (Canada). Collabora con il Corriere della Sera. È attualmente principal investigator di un progetto di ricerca di interesse nazionale (Prin) sulla circolazione internazionale del cinema italiano.

Su VP Plus, il quindicinale online della rivista Vita e Pensiero, ha pubblicato gli articoli Aspettando gli Oscar 2020, Sanremo decostruito (da Sanremo), Nuovo Cinema Netflix, La religione (e l'Italia) come "brand".


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