OLIMPIADI DI TOKIO 2020: PORTE CHIUSE, SCHERMI ACCESI

Il prossimo 23 luglio si celebrerà la cerimonia di apertura della XXXII Olimpiade. Con un anno esatto di ritardo sul calendario previsto, Tokyo 2020 apre i battenti, ma le porte degli stadi resteranno chiuse. Il governo giapponese, infatti, ha dichiarato un nuovo stato di emergenza in risposta all’epidemia di Covid-19 che continua a colpire duramente il Paese, anche a fronte di una campagna vaccinale al rallentatore. L’esito paradossale di un complicato cortocircuito sanitario-politico-economico è un’edizione dei Giochi Olimpici che si svolgerà sì, ma a porte chiuse, cioè senza pubblico in presenza ma con una copertura mediale di proporzioni globali.
È lecito, dunque, interrogarsi sul significato che potrà assumere il massimo evento sportivo mondiale giocato in tali condizioni; abbiamo infatti già avuto modo di sperimentare durante questi diciotto mesi di emergenza pandemica come lo sport, in quanto dispositivo simbolico e narrativo in grado non solo di produrre e comunicare emozioni ma, soprattutto, di generare e coltivare legami sociali, viva necessariamente della presenza del proprio pubblico. Al punto che l’assenza di questo elemento rischia di penalizzare o condizionare la stessa performance sportiva, agita surrealmente davanti agli spalti vuoti.
D’altra parte, anche in questo caso come in molti altri ambiti della vita sociale e culturale, l’emergenza Coronavirus sembra funzionare come un catalizzatore, in grado di accelerare processi di mutazione già in corso, e – insieme – come un liquido di contrasto che rende visibili le contraddizioni e le frizioni che si accompagnano a tali processi. Quello cui assisteremo a partire dal prossimo 23 luglio, in altre parole, non sarà probabilmente altro che il punto di arrivo, provvisorio, di un processo di trasformazione dello sport che è in corso da diversi decenni; una tappa ulteriore di quel lungo gioco delle parti che vede interagire, fin dalla nascita del moderno movimento olimpico, gli sport, i media e i loro rispettivi pubblici.
Da sempre il gesto sportivo – agonistico o meno – reclama uno spettatore, ed è pertanto una forma spettacolare capace di comunicare valori e raccontare mitologicamente le vicende dei suoi eroi; con la modernità lo sport è divenuto a sua volta oggetto di mediazione, rappresentazione e narrazione. Il “matrimonio di interesse” tra media e sport comincia nel XIX secolo, quando i giornali sportivi organizzano le prime competizioni ciclistiche, e dura sino al dominio della televisione, che trova nelle gare e nei campionati materiale grezzo ma di sicuro impatto per i propri palinsesti, in cambio del pagamento dei diritti di trasmissione che vanno a finanziare società sportive sempre più costose. In quella fase storica, la mediazione degli apparati di comunicazione esercita una prima forza di assimilazione spettacolare, ridefinendo le regole di alcuni sport per renderli più compatibili con i format e i linguaggi televisivi; così facendo, come aveva già intuito negli anni Ottanta Gianfranco Bettetini, essa indebolisce però il carattere festivo del legame tra sport e pubblico. La presenza degli sponsor fa il resto, attraverso una iniezione di capitali che rinsalda ulteriormente la dipendenza tra media e sport.
SOCIAL E MEDIATIZZAZIONE
Con l’avvento e lo sviluppo dei media digitali, e in particolare dei social media, il rapporto tra media e sport subisce una radicalizzazione; linguisticamente parlando, sembra una differenza di poco conto: dalla mediazione si passa alla mediatizzazione. Significa che gli apparti sportivi – dalle Federazioni alle Società, sino ai singoli atleti – fanno proprie la logica e le strategie comunicative dei media, agendo in prima persona come media company, bypassando almeno in parte i media tradizionali e realizzando media house e canali digitali che si rivolgono ai propri pubblici su diverse piattaforme. Man mano che l’offerta di sport cresce su internet, OTT, applicazioni da mobile, facendosi discorso continuo, pulviscolo di highlights, cronache sempre accessibili, conversazione fra followers e influencer, gli stadi rischiano di svuotarsi a vantaggio di un engagement sempre più diretto, personalizzato e decontestualizzato dei supporter: una strategia vincente soprattutto nei confronti del pubblico più giovane, che ha un approccio al consumo di sport completamente diverso da quello delle generazioni precedenti e che sembra aprire nuove prospettive economiche anche per gli sponsor. Basti pensare ai Campionati del Mondo di sci alpino di Cortina d’Ampezzo 2021, un evento che è stato definito – con brutto neologismo – phygital, un ibrido tra ‘physical’ e ‘digital’ i cui numeri fanno riflettere: 37.000 download dell’app ufficiale, 600.000 visitatori unici del sito web, 4,5 milioni di pagine viste durante i giochi, un Virtual Media Centre da 11 conferenze stampa, 300 ore di video distribuite online e 1100 giornalisti in collegamento da tutto il mondo. Ma praticamente senza pubblico in presenza a causa del Covid-19. Basti guardare alle app del Fantacalcio o alle recenti Olympic Virtual Series, primo passo di avvicinamento degli e-sports alle Olimpiadi, che forse rappresentano i fenomeni più avanzati dell’attuale processo di digitalizzazione e di mediatizzazione di uno sport che sembra poter fare a meno del pubblico sugli spalti.
Le Olimpiadi di Tokio 2020 segneranno probabilmente un ulteriore passo in questa direzione; costrette a rinunciare a un pubblico in presenza reso sempre meno necessario, esse definiranno una nuova fase del rapporto tra le istituzioni sportive, i singoli atleti e i loro pubblici: questi ultimi, sempre più remoti, delocalizzati, globali, mobili, individualizzati e – insieme – sempre più connessi negli spazi delle reti. Resta da vedere se, in questi inediti scenari, sapremo trovare nuove modalità di fare festa insieme.
Piermarco Aroldi
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