PERDERE LA FACCIA: LA NUOVA ICONOCLASTIA

PERDERE LA FACCIA: LA NUOVA ICONOCLASTIA

22.05.2021
di Franco La Cecla

Di questi tempi abbiamo un po’ tutti perduto la faccia. Ce ne siamo resi conto nell’incrociare maschere di sconosciuti che ci salutavano senza che li riconoscessimo. Nell’incrociare lo sguardo di donne e uomini nei cui occhi cercavano dei segni di simpatia o di rimprovero. A volte bastava un soffermarsi un po’ più prolungato di uno sguardo rivolto ai nostri occhi per fare emergere in noi il piacere di essere interrogati, di essere percepiti: chi sei?

Siamo diventati occhi, in un rovesciamento che mai avremmo immaginato prima. La nostra faccia, pericolosa a noi e agli altri è diventata proscritta. Ci siamo improvvisamente domandati cosa significa per culture in cui alcuni volti sono negati allo sguardo pubblico cosa questo comporti. Abbiamo scoperto di cercare indizi nel corpo altrui che ci rimandino a un volto, nell’ingombro che le forme del corpo impongono ai vestiti abbiamo vissuto la nostalgia di un processo che in passato dai volti ci portava ai corpi: oggi questo progredire è stato invertito. Il volto è divenuto interdetto, iconoclastia igienica di orifizi e respiri che ci vengono negati, che dobbiamo negare. Ci siamo domandati dove passa il desiderio tra corpi che diventano occhi. Abbiamo scoperto che i corpi diventano enigmatici, che le spalle, il petto, le gambe hanno bisogno per diventare fisionomia della conformazione singolare del volto. Come se fossero significativi, ma non riuscissero a uscire dalla passività, dal mutismo a cui il nostro sguardo li inchioda. Ci troviamo a domandare più indizi, ci scopriamo detective che spiano alla ricerca di evidenze.

Nello strano passaggio di epoca in cui ci troviamo è un’intera collettività, una collettività globale che sta “perdendo la faccia”. Quello che Erwin Goffmann aveva individuato come uno dei drammi quotidiani della nostra civiltà, resistere all’imbarazzo e salvare la faccia, è diventata una situazione oggettiva. Ci siamo messi una maschera che ci scherma non solo igienicamente ma che cancella l’identità riconoscibile che la nostra cultura ci aveva insegnato a costruire. Nell’informalità, ad esempio mediterranea, per cui il volto veniva negoziato, scherzato, sfidato, anticipato e dismesso, giocato nel “faccia a faccia”. Avere perso il faccia a faccia, ci auguriamo per un periodo determinato, sta però lasciando il segno, sta marchiando in un nuovo imbarazzo la nostra quotidianità. Perdiamo la pratica della faccia, la gestione dell’imbarazzo e della vergogna, ci immergiamo in una società che “prova” vergogna come sintomo oggettivo di un errore collettivo.

MASCHERE. E MASCHERINE
A cosa tutto questo porterà non è chiaro. Sicuramente la pandemia ha una componente erosiva e relazionale che va molto al di là della contingenza. La prima conseguenza è quella di farci accorgere che c’era un’ impalbabilità del faccia a faccia a cui non avevamo dato abbastanza importanza e che improvvisamente diventa una nostalgia struggente.

L’ elisione della presenza/faccia altrui e propria come pericolosa ha un’origine ben precisa. E’ la digitalizzazione la prima causa della caduta del mondo come lo conoscevamo. La pandemia va di pari passo con la globalizzazione e la digitalizzazione. Da questo punto di vista il fatto che i nostri incontri si siano trasformato in webinar e zoom sta allo stesso livello della necessità di indossare delle mascherine. Nella sostituzione della faccia alla sua immagine su uno schermo c’è la dichiarazione che non è possibile più un “faccia a faccia”. Infatti è ridicolo pensare che quello che si compie in uno spazio digitale sia un “faccia a faccia”. E’ indubbio che la chiusura in noi stessi a cui la pandemia ci sta costringendo ha a che fare con qualcosa che prima ci sembrava una promessa della rivoluzione informatica. L’isolamento a cui siamo costretti fa parte della realizzazione della promessa digitale. Da soli, di fronte a uno schermo abbiamo allontanato la presenza dei volti altrui, dei volti faccia a faccia.

La pandemia ha fatto diventare gli altri “imbarazzanti” oggettivamente, perché pericolosi e ci ha sprofondati in una nuova forma di vergogna. Come se la concretezza del mondo si fosse separata da noi, poichè di essa ci eravamo vergognati, ritenendola “primitiva” rispetto alla potenza del virtuale. In questo processo è la realtà che è divenuta nel suo complesso imbarazzante. Baudrillard aveva profetizzato questa “morte della realtà”e ci aveva avvertito delle sue conseguenze. Quello che non sapevano ancora è che avrebbe preso le fattezze reali di una pandemia.

Abbiamo perso la faccia perché l’abbiamo coperta con una mascherina. E’ la stessa parola a farci capire che è un gesto che vogliamo sminuire. Si tratta di una mascherina e non di una maschera. Essa copre il naso e la bocca e lascia libera la fronte e gli occhi. A differenza delle maschere della commedia dell’arte che lasciavano libera la bocca e spesso il naso.

E a differenza dalle maschere di altre culture che potevano arrivare a coprire l’intero volto o anche l’intero corpo. C’è una grande differenza tra le “mascherine” e questo tipo di maschere. Le seconde sono un mezzo per “scoprire” davanti alla faccia una identità diversa, che sia un animale, uno spirito, un antenato, una divinità. Le maschere sono dei dispositivi per sovrapporre e quindi aggiungere identità, come lo erano le maschere inuit o degli indiani del Nord Ovest della Columbia Britannica: un corvo che apre il suo becco per mostrare il volto di una balena e che a sua volta si può aprire per mostrare una faccia umana. Nelle maschere di altre culture si realizza la manifestazione dell’ambiguità e pluralità delle identità, umano, animale, pianta, spirito.

LA TENTAZIONE ICONOCLASTA
È come se la nostra esperienza di mascheramento oggi fosse invece solo un’esperienza di cancellazione. Neghiamo il nostro volto, neghiamo il suo respiro. Al pari di un burka ci concediamo la vista, ma neghiamo il nostro volto alla vista altrui. Siamo enfermés, imprigionati dietro a una mascherina. C’è in questo anche la perdita di un’occasione. Perché questo mascherarci non può diventare ritualmente un’ acquisizione? Perché queste maschere non possono fare giocare diversamente la nostra presenza nel mondo? E’ la stessa occasione perduta nella digitalizzazione, che invece di sovrapporsi ai nostri volti, li sta cancellando. Come se la ricchezza si traducesse in una riduzione, in una forma di iconoclastia nuova.

La nostra società innamorata dell’immagine ha finito per accontentarsi di essa. Ha cancellato la stessa idea di rappresentazione e ne ha messo al suo posto un surrogato, siamo noi al cinquanta per cento. L’iconoclastia colpisce gli originali e salva le riproduzioni. Nell’avere perso la faccia ci rendiamo però conto di quanto essa sia un fondamento irriproducibile. Mai come adesso, nel nascondimento e nella proscrizione nel nostro intimo, siamo la nostra faccia.

La tentazione iconoclasta attraversa tutta la storia dell’umanità. Come se culture diverse si ritrovassero nella comune coscienza della “potenza” pericolosa della presenza. Il volto, il ritratto di esso oscillano tra una idea di epifania e una di eccesso. L’icona è volto presente, al pari del volto di una apparizione, e in questo ogni volto è a suo modo una epifania. Lévinas ci ricorda come l’irruzione del volto altrui è la manifestazione della alterità che ci aliena, che ci porta fuori di noi stessi.

Franco La Cecla

Franco La Cecla (1950), antropologo e architetto, ha insegnato in diversi atenei italiani e stranieri, dedicandosi anche alla realizzazione di documentari e all’organizzazione di mostre. Nei suoi lavori ha approfondito il tema dell’impatto sociale dell’architettura, indagando i modelli di organizzazione dello spazio tra localismo e globalizzazione e rivolgendosi in particolare alle soglie e ai confini tra le culture.

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