POETI: DECIDE IL POPOLO

POETI: DECIDE IL POPOLO

17.03.2018

di Guido Oldani

Com’è noto, di poeti ne restano, alla memoria, in un intero secolo, una sola manciata
. Qual è il segreto di tale sopravvivenza? La cosa è semplice e quasi impossibile. Occorre che il poeta individui una forma di scrittura che non era mai stata utilizzata prima di lui.


A volte queste modalità sono proposte dai Movimenti, altre dalle singole personalità, ma il tutto è estremamente raro. In assenza di tale primizia, si ricorre al potenziamento dell’aspetto organizzativo, editoriale, delle performances, persino del Nobel. Tutto questo però nel tempo sembra assolutamente non bastare. C’è un’altra autorevolezza, magmatica, tumultuosa o alle volte silenziosamente corrosiva, quest’autorità è esercitata, persino del tutto inconsapevolmente, da sua maestà il proteiforme signor popolo.

Il popolo ha un suo tam tam, un passaparola quasi sbadato, un “gutta cavat lapidem” che sembrerebbe solo bagnare i fazzoletti ed invece fa crollare i ponti, portando a compimento delle riuscitissime torri di Babele. C’è nella storia della letteratura, un’ironia, una presa in giro di tanto ammuffito scrivere critico, per irrompere poi come l’acqua dalle dighe olandesi, se si incrinano le muraglie.

Un caso per tutti è quello della poetessa Alda Merini. L’ho conosciuta abbastanza e, incontrarla, significava sempre non sapere come mandare a compimento l’incontro. La sua è stata una dolorosa biografia psichiatrica, arricchita da numerose maternità e dalla presenza costante del cilicio fertile della poesia.

Com’è noto, i testi se li inventava lì per lì, dettandoli al telefono; qualche poesia, in questo modo, la regalò anche a me. Solo di un paio ho conservato traccia. Parlava e pensava in poesia. Inspirava ossigeno, espirava testi poetici. Ricordo quando uscì un suo libro complessivo dal titolo Testamento con la prefazione dell’amico e maestro Giovanni Raboni. Lo lessi e lo rilessi, mi misi in mente che sarebbe stata la sua opera omnia, invece era solo un inizio inoltrato del suo futuro dilagare. I “colleghi” poeti non la stimavano granché, e le grosse case editrici, condizionate, si guardarono bene dal pubblicarla. I suoi detrattori sono ancora lì, chi è rimasto, a rosicchiarsi la sopravvivenza. Lei no, come una palla di neve che scendendo diventa valanga, la Merini ha continuato, viva o non più, il suo espansivo tragitto. Beniamina della questione psichiatrica, dell’interesse per la femminilità e per il suo talento, i suoi testi vengono recitati e cantati ovunque. È l’unico poeta milanese ad avere la sua casa trasformata a proprio nome nel luogo d’esercizio del suo culto.

Pierluigi Cappello si avvia allo stesso percorso. Divenuto disabile, era in carrozzina quando lo incontrai ad un festival in quel di Duino, triestina località di rilkiana memoria. Il caldo estivo era insopportabile, sia da lui, cui non funzionavano più le ghiandole sudoripare, che da parte mia, essendo io un plantigrado. Ci rifugiammo per due o tre notti nella cantina della scuola internazionale, compagni di reclusione climatica e di poesia. I suoi testi agili ed accorati incominciarono a decollare e lui, che viveva nella sua casetta di legno a un solo piano, si avviò verso la notorietà. La sua scomparsa prematura si è in qualche modo innestata in maniera favorevole sui suoi dati biografici e letterari ed oggi, magari un po’ sorprendendo i giocatori delle corse dei cavalli nei vari ippodromi, se lo ritrovano presente nella nostra comune memoria, in una storia dolorosa ma fortunatamente a lieto fine.

In un altro pianeta dello stesso sistema solare, vive la memoria di David Maria Turoldo. Monaco poeta scomodo, come si usa dire quando un ecclesiastico creativo è stato tenuto fuori dalla stanza dei bottoni, Turoldo ha trasformato la sua voce possente di montanaro gigante, nel verso perpetuato nelle pagine della memoria. Una per tutte, ricordo l’amico Davide, sventolante con il suo saio bianco dalla tribuna dalla quale si rivolgeva a centomila tute blu, nella piazza del duomo di Milano. Era un vangelo gridato dai tetti, che toccava i cuori di sudore. Anche Turoldo non fu particolarmente amato dalla critica.

Verrebbe fin quasi da dire che perché un poeta rimanga è meglio non abbia a godere dei favori dei critici. C’è un che di carnevalesco, oltre che di provvidenziale e d’infamia, a stipulare il percorso della poesia e della cultura di questo mondo. In un testo, Turoldo se la prende con Qoelet, sapientissimo menagramo. Per lui tutto è un dejà vu, nulla di nuovo sotto il sole. Anche le onde del mare sono tutte uguali, ma Turoldo lo afferra per il bavero con il suo altolà della speranza. Eh no, caro Qoelet; di tutti i miliardi delle eterne onde dei mari non ce n’è una sola uguale ad un’altra. C’è in questo cogliere il fondo della profondità, la forza indistruttibile del supremo sperare. Sono stato amico di un uomo geniale ma solo adesso, con grave ritardo, lo so cogliere esattamente.

Potrei parlare di Antonia Pozzi, seppur con minor entusiasmo, o di Ernesto Cardenal, per il quale con altri sto proponendo il non troppo indispensabile premio Nobel. Ma questo serve per dire che, della scia dei poeti decretati dal popolo, ho solo accennato l’inizio di un’incessabile storia.

Guido Oldani

Guido Oldani, poeta, dirige la collana «Argani» presso Mursia ed è ideatore e direttore artistico di «Traghetti di Poesia», primo Festival internazionale di poesia della Sardegna. Fra le sue raccolte ricordiamo "Stilnostro" (1985), "La betoniera" (2005) e "Il cielo di lardo" (2008).

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