RACCONTARE LA VERITÀ

Quand’ero uno spiantato cronista neanche ventenne, mai avrei immaginato che molti anni dopo sarebbero arrivati dall’America alcuni ricercatori di blasonate scuole di giornalismo per chiedermi quale sia “il” mio metodo di lavoro. Lo confesso: non ho nessun metodo. E per non deludere gli studiosi stranieri mi ero persino impegnato a darmene uno. Poi ho dovuto arrendermi ai fatti: per quanto sarebbe consolatorio e rassicurante, nel giornalismo non può esserci uno spartito già scritto.
In fondo avevo cominciato a comprenderlo già all'epoca dei primi acerbi dispacci dalla provincia etnea. Li dettavo dai telefoni pubblici ai dimafonisti (eroi estinti che raccoglievano al telefono le corrispondenze da fuori redazione). Regolarmente all'indomani il sindaco del paese, il segretario della sezione di un qualche partito o l'azzeccagarbugli del posto mi rimproveravano di non essere “obiettivo”. Dicevano: “Se abbiamo deciso di costruire strade e marciapiede in mezzo alle campagne, è perché guardiamo avanti. Non per sprecare denaro pubblico”. Qualche tempo dopo, con prevedibile regolarità, qualcuno di loro finiva in galera per avere reso edificabili terreni agricoli che risultavano intestati a prestanome dei boss mafiosi. A pensarci bene, non mi chiedevano di mentire, solo di raccontare i fatti (il cantiere stradale). Da allora diffido sempre di chi chiunque abbia un potere e chieda ai giornalisti di “attenersi solo ai fatti”.
Per chi come me ha cominciato a correre dietro alle notizie in mezzo alle guerre di mafia in Sicilia, i modelli di riferimento erano pochi ma ancora insuperati. Penso a Giuseppe Fava, per tutti Pippo, ucciso a Catania nel 1984. Sei anni prima a Palermo i sicari avevano eliminato Mario Francese.
Le parole di Fava sono un precetto. Nessuno è riuscito a dirlo meglio di lui: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. Un’idea di giornalismo che mette davanti a scelte professionali e di vita. “Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane - ricordava Fava -. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali”. Un giornalista incapace della verità “per vigliaccheria o calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!”.
Che si tratti dei resoconti dei consigli comunali di paese o dei dispacci dalle crisi internazionali, questo “metodo” di giornalismo etico resta attuale e universale.
Nel 2010 è stata la Corte di Cassazione a fornire una descrizione che ha fatto giurisprudenza e che dovrebbe fare scuola anche nelle redazioni: “Il giornalismo d'inchiesta è l’espressione più alta e nobile dell'attività di informazione; con tale tipologia di giornalismo, infatti, maggiormente si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche meritevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”. E nell’affermare che “la sovranità appartiene al popolo”, i giudici insistono su una “imprescindibile condizione per un pieno, legittimo e corretto esercizio di detta sovranità: che la stessa si realizzi mediante tutti gli strumenti democratici”, tra cui “un posto e una funzione preminenti spettano all’attività di informazione”.
È il caso, fra l'altro, della trattativa tra Italia e Libia, che ha portato funzionari del nostro Paese a negoziare con boss del traffico di esseri umani, petrolio, armi e droga. Dopo anni di ricerche siamo riusciti non solo a dimostrarne l'esistenza e i contenuti, ma su Avvenire abbiamo pubblicato diverse immagini che hanno poi fatto più volte il giro del mondo: il guardacoste Abdurahman al Milad, nome di battaglia Bija, ritenuto a capo di una delle organizzazioni criminali più potenti della Libia, nel 2017 era stato ospitato in Italia per incontrare funzionari pubblici e alti ufficiali nonostante da tempo fosse nota la sua caratura. Tutto era avvenuto nella totale segretezza. Le pressioni e le manovre politiche per mettere a tacere tutto continuano ancora oggi, a quasi un anno dalla pubblicazione.
Nello Scavo
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