RACCONTO DI PASQUA

Quando ero giovane si sentiva spesso dire che l’infermiere non era un lavoro come un altro, si diceva che era un lavoro speciale, si sosteneva che il mestiere dell’infermiere in realtà non era semplicemente inquadrabile come un lavoro, ma che per fare l’infermiere bisognava sentire dentro qualche cosa di speciale: bisogna sentire l’impeto di una missione.
Può darsi; di sicuro qualcuno avrà sentito dentro se stesso questa necessità, questa urgenza, questo ardore di portare il verbo del Nursering in giro per le corsie di tutto il mondo.
Può darsi.
Sono più propenso a pensare che siano le circostanze particolari della vita di ognuno di noi a farci trovare, di volta in volta, di fronte alle esperienze e ad obbligarci a fare delle scelte, o a subirle.
E così, a causa, o grazie alle mie circostanze, alle mie esperienze, alle mie sliding doors, mi è capitato che un giorno, a 18 anni, sono entrato nell’ufficio del personale dell’Ospedale di Legnano a consegnare una domanda di assunzione. Era il settembre del 1974.
Io che avevo trascorso l’infanzia e l’adolescenza fantasticando di gloriosi propositi professionali: avrei voluto fare il calciatore, l’astronauta, l’ingegnere; i professori delle medie poi mi avrebbero visto bene come avvocato, e invece le circostanze, quelle della mia famiglia, della mia vita, mi hanno portato, anziché in un’aula di tribunale, o su un campo da calcio, o in una stanza depressurizzata di un’astronave, le mie particolari circostanze mi hanno portato, dopo la scuola media, in una fabbrica: a fare il metalmeccanico.
Addio sogni di gloria, 8 ore al giorno tra presse, torni, e saldatrici.
Quello era il periodo nel quale dove abitavo io c’erano più fabbriche che case, e se perdevi il posto di lavoro entro una settimana ne trovavi un altro. La parola disoccupato non esisteva e se per caso qualcuno lo diventava, era perché non aveva voglia di lavorare.
Ma eccomi lì a 18 anni, dopo 5 anni di fabbrica, senza lavoro, con la prospettiva, nel giro di un anno, di andare a fare il militare (allora era obbligatorio). In quella situazione nessuno mi avrebbe assunto.
Tranne che l’ospedale. Contratto temporaneo di un anno come ausiliario.
«Scusi in cosa consiste?»
«Lei deve fare le pulizie in corsia, raccogliere le stoviglie dei degenti, portare le lenzuola sporche in lavanderia, provvedere alla pulizia dei bagni e dei supporti destinati alle deiezioni dei pazienti»
«Cioè?»
«Deve pulire i pappagalli e le padelle».
«Io? io! io che prima o poi giocherò il serie A, io che andrò su Marte a capo di una spedizione...»
«750.000 Lire al mese per 13 mensilità».
«...Però non male, quando si comincia?»
«Domani».
Ed eccomi lì tutto vestito di bianco, con una scopa di saggina in mano, in un cesso di un ospedale, io che svenivo solo all’idea di farmi medicare una sbucciatura…A proposito, devo aprire una parentesi.
Dovete sapere che quando io e i miei coetanei, negli anni ’60, cadendo ci sbucciavamo le ginocchia o i gomiti, iniziava un calvario infinito: normalmente i bambini, quelli di una volta, non danno molto peso alle escoriazioni e alle abrasioni, però le mamme si preoccupano.
Le mamme degli anni ’60 quando ti vedevano con un ginocchio sbucciato estraevano nell’ordine:
A) un flacone di alcool denaturato, che veniva versato copiosamente sulla ferita per disinfettarla, provocando urla lancinanti del bambino: era lo stesso alcool che veniva usato anche per lavare i pavimenti, i water e i bidet;
B) polvere di cicatrene, la quale veniva cosparsa sulla ferita come se fosse zucchero in polvere;
C) la garza e infine il cerotto, quello rosa, quello che attacca come il cemento, infatti alcune civiltà non usano la malta per tenere insieme i mattoni, ma i cerotti rosa che sono anche antisismici…
Negli anni ’60 non era stato ancora inventato il Fitostimoline.
E quindi quando la mamma apponeva la garza sopra il cicatrene, il bambino smetteva di piangere perché la tortura della medicazione era finita.
Solo che poi la medicazione andava cambiata, la garza andava tolta.
Nel frattempo il cicatrene si era inglobato nella ferita, era parte stessa del ginocchio, i tessuti aveva subito una modificazione: c’era il derma, l’epiderma e il cicadrerma.
Togliere la garza era come scuoiare il bambino, di fronte alle suppliche del bimbo la mamma cosa faceva per ammorbidire il tutto? Versava dell’alcool denaturato. Poi hanno inventato il Fitostimoline, e qualche disinfettante diverso dall’alcool denaturato.
Ditemi voi se uno che è stato medicato una volta con il cicatrene e l’alcool denaturato può pensare mai di fare l’infermiere nella vita.
E invece…
La vita talvolta è bizzarra, talvolta brucia come l’alcool denaturato.
Il primo giorno da infermiere lo trascorsi pulendo i bagni del reparto “Chirurgia plastica e della mano”. Tecnicamente ero un “Ausiliario delle pulizie”, quindi, come mi spiegò la caposala, non potevo in alcun modo svolgere le funzioni di somministrazioni di terapia, esecuzioni di esami quali il prelievo del sangue, o medicazioni di ferite o piaghe, alle quali funzioni appunto, erano destinati gli infermieri diplomati. Che mancavano.
L’ospedale è quella strana fabbrica dove manca sempre il personale, e dove la materia prima, gli ammalati, invece non mancano mai.
La caposala mi chiese se non avevo mai fatto una puntura, risposi che si purtroppo mi avevano bucherellato fin da bambino con antibiotici e medicine per farmi crescere, con scarsi risultati evidentemente.
Solo che lei intendeva se io avevo mai fatto un’iniezione a qualcuno, risposi atterrito che no e che non sarei mai riuscito a farlo.
Lei rise, disse che in ospedale non c’era posto per i pappamolla, e che dovevo farmi trovare pronto, perché prima o poi, in caso d’emergenza, mi sarei trovato nelle condizioni di fare un’intramuscolare a qualcuno.
Io terrorizzato dissi che non potevo perché non ero diplomato, lei rispose che a un malato che ha un dolore post-operatorio lancinante non gliene può fregare un’accidenti del diploma, basta che qualcuno gli ficchi un ago in una chiappa e che prema lo stantuffo velocemente, così che il Toradol entri in circolo il prima possibile!
Mi sembrò convincente.
E venne il giorno della prima puntura: io speravo di addestrarmi prima sul bambolotto di gomma.
Il reparto ne era sprovvisto. Quindi? Quindi venga, faremo una puntura al 23.
Dio mio! il 23 era un muratore grosso come un tir, a cui avevano riattaccato 2 dita perché erano rimaste schiacciate sotto una putrella di 4 quintali. Era bergamasco ma, dal dolore, bestemmiava come un turco.
Avrei voluto scappare, ma il muratore quando mi ha visto con una siringa in mano mi ha accolto coma madre Teresa di Calcutta, a quel punto ero fregato: il bergamasco si girò, abbasso la mutanda mostrando un gluteo che sembrava il Monte Bianco, feci qualche timido tentativo ma l’ago rimbalzava, a un certo punto la Caposala strinse il mio polso e lo conficcò violentemente sulla cima del Monte Bianco proprio come fa l’alpinista con la bandierina; il muratore prima si inarcò come in preda a una crisi tetanica, poi urlò, successivamente bestemmiò, poi disse: già fatto?
Il muratore grazie a Dio ha riacquistato le sue dita che sono attecchite dopo l’intervento chirurgico, quando ha lasciato l’ospedale però zoppicava dalla parte destra…al momento della dimissione ha chiesto al chirurgo come mai l’amputazione delle dita comportava una zoppia controlaterale; il medico non diede una spiegazione, suggerì degli impacchi con acqua calda e sale.
Se finisci in Traumatologia e Ortopedia, diceva la Caposala, sei fortunato, ti spacchi la schiena dalla fatica, ma di morti non ne vedi.
La fortuna mi ha assistito per un anno, poi due infermiere della Medicina II sono andate in maternità.
Il primo morto che ho visto aveva un tumore allo stomaco. Per due settimane gli ho rifatto il letto e gli portavo il termometro per misurarsi la febbre; quando se lo toglieva da sotto l’ascella mi guardava senza parlare, io dicevo 37 e 4, lui abbassava gli occhi e si girava sul fianco; attendeva con lo sguardo preoccupato l’arrivo della moglie, poi lei si sedeva di fianco al letto e lui girava la sua preoccupazione dall’altra parte.
Quando ha smesso di respirare sembrava che i suoi occhi domandassero: “E adesso che succede?”: il medico ha tirato il lenzuolo bianco sul suo volto.
Non ricordo nemmeno come si chiamasse, ma quando accadde soffrii come se fosse morto un amico caro, un parente prossimo. La Caposala mi disse che succedeva sempre così con il primo morto; mi diede 2 giorni di ferie e poi aggiunse che un bravo infermiere curava i malati come se fossero dei suoi amici, ma non si affezionava perché in quel reparto non potevi sopportare di perdere un amico alla settimana.
Sono rimasto a lavorare in Medicina II per 5 anni, se non avessi ascoltato la Caposala avrei visto morire centinaia di amici.
Invece ho lavato, cambiato, somministrato terapie, frizionato, misurato la temperatura, e allungato decine e decine di lenzuola sugli occhi. Di un pugno di loro non riesco a scacciare il ricordo, uno in particolare a cui restavano due settimane. Il giorno della dimissione prenotò in un ristorante di pesce e invitò a cena tutti gli infermieri, disse invitandoci che voleva brindare con noi per l’avvenuta guarigione: ci stava chiedendo a tutti noi di fingere.
Ma io non ce l’ho fatta ad andare.
L’ultimo per cui ho sofferto aveva 17 anni e un corpo che perfino la morte aveva soggezione di lui. Non ce la avrebbe mai fatta a schiantarlo in un incidente stradale, o schiacciarlo sotto una trave, o a prenderselo in mare. No, Fabrizio era troppo forte.
Allora la morte, che è umile e mai spavalda, si è insinuata dentro di lui senza che nemmeno se ne accorgesse.
Quando iniziò a grattarsi un braccio e poi la spalla, era giàtutto finito.
Nei primi anni ’80 se la morte si travestiva da linfoma di Hodgkin, era imbattibile.
Era il più giovane in reparto e gli destinarono la camera singola, dove i parenti potevano stare a vedere la televisione con lui, o a guardare il parco dall’ampia vetrata della stanza.
Quando morì, gli infermieri stettero davanti alla porta chiusa come un picchetto di scioperanti. Non volevano far entrare il fratello, che era più forte di Fabrizio.
Come un crumiro della vita, il fratello travolse il cordone; una volta di fronte ad un paio di occhi chiusi, sferrò un pugno contro la vetrata, e l’aria fredda di febbraio paralizzò il suo e il mio dolore.
Lavorando per 11 anni in ospedale e facendo i turni: 6-14, 14-22, 22-6, ho visto migliaia di aurore, di albe e di tramonti.
Dicono che la notte appartiene agli artisti, ai balordi, ai perditempo, alle prostitute, al divertimento, ai balli, allo sballo.
No, la notte appartiene agli infermieri, solo loro ne conoscono il mistero, loro che vegliano a pochi metri dal dolore, loro, che sentono i passi della morte affacciarsi curiosa nelle stanze, loro, poliziotti della speranza che non chiude mai gli occhi.
Giacomo Poretti
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